La sacra ape

L’ape europea (Apis mellifera Linnaeus, 1758) è la specie di Apis più diffusa al mondo, ma purtroppo anche una delle più minacciate dalle contaminazioni ambientali di origine antropica. Questo singolare insetto, utile bioindicatore, fondamentale per l’equilibrio dei nostri ecosistemi, è stato osservato e analizzato in diversi settori delle discipline naturalistiche, sin dai tempi in cui scienze naturali, fisica, chimica e letteratura non erano rigidamente separate nell’universo culturale dell’uomo occidentale.

Una delle più significative pubblicazioni nell’àmbito delle discipline naturalistiche e letterarie dell’Accademia dei Lincei fu l’Apiarium di Federico Cesi, stampato da Giacomo Mascardi nel 1625, e definito da Giuseppe Gabrieli “la prima monografia entomologica che sia stata composta dopo l’invenzione o modificazione galileiana del microscopio“. Poco prima della pubblicazione dell’Apiarium, Cesi ordinò la stampa e la diffusione della Melissographia, una preziosa tavola di Francesco Stelluti – suo amico e collaboratore alla redazione dell’Apiarium -,   omaggio all’emblema araldico di Papa Urbano VIII Barberini, rievocato in questa incisione ad opera di Matthäus Greuter. La tavola riportava una sintesi delle osservazioni scientifiche con il microscopio e rappresentava un trigono di api arricchito dai disegni raffiguranti una serie di particolari anatomici.

Apiarium (particolare, Biblioteca Lancisiana, Roma)

Melissographia (Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano)

Tuttavia, l’indagine microscopica, e quindi naturalistica, non è l’unico àmbito nel quale sia possibile studiare questo insetto, che, sin dall’antichità, si è arricchito di così tanti significati nascosti, che neanche le più moderne strumentazioni scientifiche potrebbero svelare.

L’ape, il miele, la cera: significati alchemici, esoterici, sacri.
Laboriosa, infaticabile, caratterizzata da numerosi aspetti che la rendono unica, l’ape ha assunto una valenza simbolica importante in molte culture. Questo insetto è legato anche alla simbologia della cera, del miele e dell’alveare, inteso come struttura sociale gerarchica.
Il simbolo dell’ape è presente nei culti della Grande Madre, perché le api costituiscono una società di tipo matriarcale; ad esempio, sono spesso rappresentate insieme alla figura mitologica di Diana Efesina, la Dea dalle molteplici mammelle, simbolo di fertilità, una forma di culto specifica di Efeso.

Artemide di Efeso, particolare (MAN Napoli, Inv. 6278)

Nei Misteri Eleusini le sacerdotesse di Cibele venivano soprannominate “Api” o Melisse (dal nome greco dell’ape, μέλισσα, che significa “produttrice di miele”). Una melissa nutrì Zeus bambino con il dolce miele, che aveva un potere taumaturgico, insieme alla sorella Amaltea, che invece lo alimentò con latte di capra.
Anche la Pizia, sacerdotessa di Delfi cara ad Apollo, veniva chiamata Melissa, ovvero l’Ape, e lo scrittore Pausania, nelle sue Periegesi della Grecia, narrava un vecchio mito secondo il quale uno dei cinque templi dedicati ad Apollo in Delfi era stato edificato dalle laboriose api con la cera. Esisteva uno stretto legame tra l’ape, simbolo femminile, e il culto solare di Apollo, di valenza maschile.

C’è poi un nesso tra le ninfe e le api: la danza. Le api comunicano tra di loro con armoniosi schemi ben definiti, per ritrovare una fonte di cibo, con grande precisione per quanto riguarda direzione e orientamento rispetto al sole. Questo metodo danzante di comunicazione, associato alla forma circolare, al sole e al suo orientamento nello spazio, hanno creato una serie di connessioni simboliche che si ritrovano nei riti: il ritrovamento del labirinto, con i meandri che richiamavano il movimento delle api, nello spazio sacro, la danza come azione sacra che talvolta induceva estasi o possessione.
L’ape compare anche nella simbologia dei Rosacroce, nella famosa incisione dal Summum Bonum di Robert Fludd (1629), che ritrae una croce sormontata da una rosa con la scritta in latino «Dat Rosa Mel Apibus», motto dei Rosacroce. Il significato è «la rosa dà il miele alle api».

Robert Fludd, frontespizio del Summum bonum, 1629.

Il miele, per molto tempo unica fonte di zuccheri a buon mercato, fu la ragione per cui l’ape iniziò a essere anche presa come simbolo dell’abbondanza e della ricchezza. Dal miele, per numerosi miti greci, celti e germanici, si produceva l’ambrosia, bevanda degli Dei, dal momento che solo gli immortali potevano gustarla. Per la loro delicatezza nel percepire i suoni, gli Elleni ritenevano che le api fossero ambasciatrici delle Muse.
Il miele, estremamente raro e prezioso, era legato al mondo infero: veniva usato nelle offerte sacrificali dei riti funebri e destinato al sacrificio per le divinità ctonie. Glauco, figlio di Minosse e Pasifae, rinasce dopo essere affogato nel miele. In Egitto e a Roma esisteva la pratica di imbalsamare i morti con il miele, per le sue proprietà anaerobiche e antibatteriche. Secondo Stazio, anche il corpo di Alessandro Magno fu immerso nel miele ibleo, e così Augusto, tre secoli dopo, riuscì e intuirne i tratti del volto.
Il miele era certamente legato anche alla vita e alla nascita: era l’unico alimento destinato ai neonati nei primi due giorni di vita, ed era il nutrimento per i figli “divini” Zeus e Dioniso. Pitagora attribuiva la sua longevità a una dieta di miele.

In alchimia, invece, l’alveare è uno dei simboli alla materia prima che si trova dappertutto e, mediante il processo di trasmutazione, può essere trasformata nella Pietra Filosofale. L’associazione simbolica avviene attraverso la “cabala fonetica”, o “lingua degli uccelli”, usata dagli iniziati per nascondere messaggi segreti mediante ricercate assonanze linguistiche, soprattutto nella lingua originale, il francese. Il nome francese dell’alveare, la ruche, richiama proprio da vicino il termine roche, roccia, ossia la pietra.
Tra le varie caratteristiche, alle api fu attribuita anche la purezza, come scrive Virgilio nel IV libro delle Georgiche: «non si abbandonano all’amore, non si infiacchiscono nei piaceri e non conoscono né l’unione dei sessi né i dolorosi sforzi del parto».

Mitologia greca ed egizia
Secondo il mito, furono le api a fabbricare il secondo tempio di Delfi e, in Grecia, esse furono emblema di lavoro e di obbedienza. Furono anche associate all’idea di monarchia come organizzazione ideale della società e dello Stato.
Per la loro abitudine di nascondersi durante i mesi invernali e di rimanifestarsi in primavera, le api sono simbolo della rigenerazione, del ciclo della vita costituito dall’alternanza di morte e rinascita. Per i Greci, questo ciclo è descritto nel mito della dea Demetra, che per sei mesi si rallegrava della presenza di sua figlia Persefone, mentre per altri sei mesi, nell’arco dei quali la figlia tornava a vivere insieme ad Ade nell’oltretomba, lasciava la terra senza i suoi frutti, nella stagione buia e fredda.
Le api avevano una funzione sacra e iniziatica: le si trova raffigurate sulle tombe come segno di rinascita dopo la morte. L’ape è quindi simbolo della nascita a nuova vita, ma anche simbolo solare di saggezza, virtù, operosità, luce, anima collegata al divino. Nella tradizione ellenica l’ape rappresenta l’anima discesa fra le ombre che si prepara al ritorno, proprio perché nella stagione invernale sembra sparire nascondendosi nell’alveare. Talvolta essa s’identifica con Demetra.
In Egitto l’apicoltura esisteva già intorno al 2600 a.e.v. L’ape era il simbolo della regalità del Basso Egitto. Nell’arte e nelle tradizioni dell’Egitto essa è simbolo dell’anima ed è di origine solare, essendo nata dalle lacrime di Ra, il Dio-sole, cadute sulla terra. Anche per i cristiani, le api avrebbero avuto origine dalle lacrime di Cristo, secondo alcune leggende. In Egitto, scene di apicoltura sono visibili sui bassorilievi della tomba di Niuserra, re della V dinastia, e la raccolta del miele viene descritta sulle pareti della tomba di Rekhmire, gran visir di Amenhotep II, faraone della XVIII dinastia. Il re dell’Alto e del Basso Egitto era chiamato “principe ape” perché l’ape, simbolo solare, raffigurava il principio della regalità. Nel tempio il gran sacerdote accendeva una candela di cera d’api per dare luce al volto invisibile della divinità. Anche i sacerdoti erano definiti “api” (proprio come le sacerdotesse di Cibele o come la Pizia), come manifestazioni terrene del Dio Ra.

L’ape nei miti e nella letteratura classica
Secondo Platone, le anime degli uomini sobri si reincarnano sotto forma di api.
Porfirio, filosofo del III secolo e.v., narra che gli antichi chiamavano ‘mélisse’ le anime, ma solo quelle destinate alla rinascita e a vivere secondo giustizia, e poi tornare là da dove provenivano dopo aver compiuto la volontà degli Dei: “l’anima dapprima discende nel mondo sensibile, nei corpi, e dopo si pone il problema del ritorno all’origine attraverso la vita morale”. [Porfirio, Antr. 34, 5 ss]
Anche il poeta Virgilio, nel IV libro delle Georgiche, prende le api come esempio di operosità e vede il lavoro non più come una condanna, ma come dono divino, rivalutandolo dal punto di vista etico. La figura delle api assume particolare importanza poiché l’Autore mostra le api richiamando la metafora di Cicerone: «Come gli sciami delle api si riuniscono non già per costruire i favi, ma costruiscono questi in grazia del loro istinto associativo, cosí gli uomini si dedicano con solerzia all’azione e alla speculazione in quanto naturalmente congregati in società, ancor piú delle api stesse. Pertanto ove quella virtú, che risulta dall’obbligo di proteggere gli uomini, cioè dalla sociabilità umana, non si unisca alla conoscenza teorica, quest’ultima sembra andar errando sterile e in solitudine. Parimenti la magnanimità senza il sentimento sociale e l’unione degli uomini non sarebbe che una sorta di inumana ferocia. Pertanto l’esigenza sociale e la comunione degli uomini ha la precedenza sull’interesse teorico.» (Cicerone, Opere politiche e filosofiche).
Le api hanno un’organizzazione comunitaria – descritta anche da Plinio nell’XI libro della Naturalis Historia – che si differenzia dalla struttura sociale di altri animali per la fedeltà alla casa e alle leggi, per la condivisione del cibo e per lo spirito di abnegazione, in una visione stoica della comunità. Le api si sacrificano per il bene comune e mantengono una dedizione totale verso il capo.

Rege incolumi mens omnibus una est;
amisso rupere fidem. Virgilio, Georgiche IV, 212-213

(Finché il re è sano e salvo, tutte [le api] la pensano in egual maniera, ma, perduto il re, il patto è infranto.)
Con le Georgiche, Virgilio si allontana dalla pace consolatoria della natura descritta nelle Bucoliche per trasformare il paesaggio in cultura e conoscenza, sorretta dal lavoro dell’uomo.
“Il lavoro è tenue, ma darà non tenue gloria.” (IV, 6)
Per questi motivi, Virgilio arriva alla conclusione che le api abbiano una origine sacra e che conservino quella luce divina nella parte più profonda del loro essere. Esse sono, quindi, simbolo dell’immortalità dello spirito che dà forma a tutti gli esseri viventi che abitano la Terra.

Illustrazione delle Georgiche di Virgilio (Wenceslas Hollar, 1654 – da wikipedia).

A questi indizii, e prodigiosi esempi
riflettendo talun pensò, che l’api
abbian celeste origine, ed un raggio
chiudano in sen de la divina mente:
poiché diffuso per le terre e i mari,
e pei campi del ciel vuolsi che immenso
spirito il mondo informi, e da lui vita
traggan uomini, armenti, augelli e fiere;
e in lui di nuovo poi da i corpi sciolte,
non soggette a perir, tornino l’alme
a rïunirsi, e redivive il volo
spieghino al cielo ad abitar le stelle. Virgilio, Georgiche IV, 338-349

Le api, dunque, ci insegnano che la fedeltà alla casa e alle leggi, la condivisione del cibo e lo spirito di abnegazione nello svolgimento del proprio lavoro, uniti a un profondo senso di appartenenza a una comunità, sono virtù divine ed elementi fondativi di un paesaggio umano, di una struttura sociale, di uno Stato.

Bibliografia

  • Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti Editore, Milano, 1991.
  • Federico Cesi, Apiarium, Roma, Ex Typographeio Iacobi Mascardi, 1625.
  • Cicerone, Opere politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol. I, pp. 357-358, 410.
  • Publio Virgilio Marone, Georgiche, Sansoni Editore, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, 1993.
  • Porfirio, L’antro delle Ninfe, Milano, Gli Adelphi, 1986, 34, 5 ss.
  • Francesco Stelluti, Melissografia, Roma, 1625.

Immagini

  • in testata: Disco d’oro con api, (700-600 a.e.v., collezione del Nasher Museum of Art).
  • in evidenza: Favo con api, Galleria di Napoli (frontone ingresso via S. Brigida).



Il toro: bestia altera dall’impeto indomabile

«Bestia altera dall’impeto indomabile» (Teogonia, 832), simbolo di forza e vigore per tutte le culture più antiche, il toro si ritrova anche alle origini della nostra civiltà: è sotto le sembianze di un toro bianco che Zeus rapisce Europa, figlia di Agenore, re di Tiro. Il toro, dall’aspetto vigoroso e pesante, è anche caratterizzato da un’abbondante massa ventrale. La sua forma, sviluppandosi principalmente in orizzontale, gli conferisce caratteristiche molto femminili, non a caso il segno zodiacale del Toro (21 aprile-20 marzo), è governato da Venere e nella cultura matrifocale dell’Europa Antica, il bucranio era ritenuto l’organo riproduttivo femminile, laddove il muso simboleggiava l’utero e le corna le ovaie. A causa delle sue corna possenti e della sua massa cranica robusta e solida, simboleggia anche la forza istintiva e selvaggia. È un’impresa ardua domare la sua foga: ci riesce soltanto la divinità indù Shiva quando cavalca il toro bianco Nandȋ e tramuta il suo impeto disordinato in ordine cosmico. L’impetuosità e la forza quasi incontenibile di questo animale sono utilizzate da tutti i popoli per simboleggiare la virilità del maschio e la sua infaticabile fertilità.

Fatica di Ercole contro il toro (lastra architettonica in terracotta, fine I a.C. prima metà I dC, Musei Vaticani)

Il toro è venerato da innumerevoli popoli, ora come simbolo di forza, ora come simbolo di fecondità. Il suo muggito è associato al tuono tanto che in Asia centrale, Mongolia, Siberia e tra gli Yakuti si crede che vi sia un toro che riposa sul fondo delle acque e che il suo muggito preceda ogni temporale (Chevalier e Gheerbrant, 2016). Il toro è simbolo della divinità ebraica El che, sotto forma di statuetta bronzea, è apposta sulla sommità di un bastone. Rappresenta nelle religioni mediterranee, gli Dei celesti come Urano, divinità fecondatrice e sposo di Gea. Di molte divinità celesti dai tratti taurini, non si venera tanto il carattere trascendentale quanto la potenza fecondatrice. Rudra del Rig Veda, divinità celeste che fertilizza i campi con il suo seme, è rappresentato da un toro, così come Indra, Dio vedico e signore dei fulmini e delle piogge. Dunque, non è raro assistere all’evoluzione delle divinità celesti in divinità fecondatrici, raffigurate come possenti tori, e caratterizzate dalla ierogamia con la Madre Terra. Questo stretto legame Toro-cielo-Madre Terra è presto spiegato: nel cielo, luogo dove “muggisce” il tuono, risiede la divinità fecondatrice, dai tratti taurini e virili, il cui “seme”, la pioggia, cade e feconda la terra. Assistiamo alla metamorfosi della divinità celeste da deus otiosus, chiuso nella sua perfezione e non partecipe della vita terrena, a deus pluvius: le divinità cosmogoniche abbandonano la funzione generatrice dell’universo per trasformarsi in divinità fecondatrici strettamente legate alla figura di una divinità femminile (Eliade, 2007). Altrettanto forte è il legame che si instaura con la Luna, elemento che regola il dominio delle acque. Il sistema simbolico Luna-Acqua-Terra riguarda l’ambito della fecondità. La figura del toro spesso è associata alle divinità lunari: le corna taurine rappresentano per molti popoli la falce lunare: è di nuovo il caso di Shiva, che porta sul capo un corno perfetto, ierofania della Luna. L’associazione Toro-Luna si nota in molte altre civiltà antiche: la divinità lunare egizia Osiride è raffigurata sotto forma di toro; presso i Persiani, la luna è chiamata Gaocithra, cioè conservatore del seme del toro; anche Venere, dea della fertilità, di notte si trova nel segno del Toro, con la luna in esaltazione (Chevalier e Gheerbrant, 2016).
L’evocazione di virilità che risiede nel Toro, lo porta a riconoscersi anche nel Sole, infatti il toro è associato a Mithra, divinità solare di origine iranica, il cui culto prevede che ogni 25 dicembre si celebri la rinascita del Sole (Natalis Solis) proprio sacrificando un toro.

Mitreo di Santa Maria Capua Vetere

Alla luce di questa nuova simbologia, ecco che il toro è portatore di significati apparentemente antitetici, ma in realtà complementari. È un animale lunare poiché legato ai riti della fecondità ed è un animale solare per il suo temperamento focoso. Ricordiamo il Minotauro, nato dall’unione di Pasifae (Luna) con un bellissimo toro e messo a guardia di un labirinto. Ogni otto anni, il re Minosse donava in sacrificio sette fanciulli e sette fanciulle, probabilmente per rinnovare, con il favore di Zeus, il proprio dominio sulla città di Creta. Secondo alcune versioni, questi giovani vergini erano destinati al temibile mostro, secondo altre, erano offerti a Talos, gigante di bronzo posto a guardia della città, a volte descritto con le sembianze di un toro e altre con quelle del sole (Frazer, 1973).
Sempre a Creta, attorno alla figura del toro gravita uno sport spettacolare definito taurocatapsia: una sorta di danza acrobatica ricca di capriole eseguite sul dorso di un toro. I giovani cretesi si esibivano nelle arene minoiche in prove di destrezza e abilità fisica misurandosi contro l’indomita bestia. Questa pratica, esercitata nel 3000-1500 a.C. era probabilmente un rituale per omaggiare il possente animale. Ben diversa è la tauromachia, la lotta uomo-toro, di cui si parlerà in altra sede. È bene, però, iniziare a precisare che questo tipo di lotta non è circoscritto alla sola Grecia antica: non è da escludere che la corrida, simbolo nazionale spagnolo, possa essere legata alla tauromachia ellenica. È anche plausibile che questi spettacoli non fossero semplici sport popolari ma un antico retaggio del culto neolitico della Dea Madre, legato al periodo della cultura matrifocale, praticato sia nella penisola iberica che nella regione mediterranea. Del resto, già Sinclair Hood, in un libro uscito in edizione originale nel 1971, collegava la lotta uomo-toro a dei rituali della fertilità, per la nota valenza del toro in quell’ambito.

Taurocatapsia (Grande Palazzo, Cnosso, Creta)

Ciò che risalta in questi sport è che, come per l’efebia della Grecia Classica, vi è la glorificazione dell’eccellenza atletica, manifestata in imprese di cui gli Dei stessi erano testimoni.
Nella zona di Napoli, culla di civiltà e omphalos di storia, cultura e riti iniziatici, i giovani efebi, per giungere all’età adulta, dovevano superare una serie di prove in onore di Ebone, nume partenopeo dal corpo taurino e dal volto antropomorfo e barbuto. Il culto del dio-toro era una pratica segreta e misteriosa, destinata esclusivamente ai sacerdoti del dio, impegnati in una sorta di tirocinio dei giovani chiamato dai Greci “efebia”. Quest’ultima consisteva nell’educazione militare dei giovani liberi, a partire dai 18 anni di età, unita ad un’istruzione letteraria e musicale, perfettamente inserite nella sfera religiosa e integrate con l’interesse agonale. Il culto di Ebone era presieduto da un collegio di sacerdoti: alcuni membri rivestivano la carica di laucelarchi, ruolo probabilmente comparabile a quello dei demarchi che, secondo Capasso (1905), erano riconducibili a figure devote a Dioniso.
Ebone è raffigurato nel gruppo scultoreo della Partenope, posizionato sulla facciata principale del Real Teatro di San Carlo, eppure, secondo il grecista Martorelli, il toro androprosopo e la stessa dea Partenope potrebbero essere le divinità meno autoctone. Il culto di Ebone potrebbe essere di origine fenicia, importato a Napoli dai coloni d’oriente, mentre la divinità fondatrice della città presenta alcuni interessanti punti in comune con Lilith Partenope e, ancor di più, con la dea Tanit, rispettivamente presenti nell’antica mitologia mesopotamica e in quella cartaginese.

Sembrerebbe, inoltre, che Ebone sia stato una divinità privilegiata. Capuccio, in Storia di Napoli, riporta un’iscrizione greca che omaggiava il nume Ebone con l’epiteto di eccellentissimo: НВОΝІ ΕΠΙΦΑΝΕΣΤΑΤΩ ΘΕΩ (Ebone, dio eccellentissimo, o dal magnifico fulgore). Tale superlativo era, solitamente, riservato solo a divinità quali Zeus, il Sole, la Luna, Asclepio e la Buona Salute (Napolitano, 1978). Secondo diversi studiosi, tra cui Capasso, Ebone potrebbe essere la raffigurazione di Bacco (o Dioniso), figlio di Zeus e di Semele, spesso raffigurato come toro. Bacco, Dio dell’ebbrezza, del fervore, degli eccessi, rappresenta la congiunzione tra il mondo divino e quello terreno. Non è un caso che tra le vittime sacrificali immolate al Dio vi sia un animale prolifico come il toro: Bacco, infatti, è anche Dio della vita e della vegetazione, signore della fecondità umana e animale.
Anche Ebone, nonostante la folta barba, potrebbe identificarsi come dio della gioventù e, con molta cautela, si potrebbe ipotizzare che il nome di Ebone sia il corrispettivo maschile di Ebe, dea della giovinezza, spesso associata a Dioniso. In effetti, dal nome della dea deriva il termine “efebo” che traccia un collegamento con la succitata pratica greca dell’efebia.

Moneta napoletana raffigurante Partenope e sul verso Ebone (ca. 300 a.C.)

Ebone è raffigurato sul retro di una moneta campana, la zecca di Cales, spesso sovrastato da un astro o in procinto di essere incoronato dalla dea alata Vittoria (Ruotolo, 2010). Questo astro, molto probabilmente il Sole, spinge a riflettere ancor di più sulla possibile identificazione di Ebone con Bacco. Del resto, l’espressione “lucido astro” (fosfòros astèr) venne già usata da Aristofane per identificare il Dio dell’ebbrezza.  Dunque, è verosimile che il Sole sul dorso del toro androprosopo non sia stato aggiunto come ornamento ma come riferimento manifesto a Bacco.

Ciò che emerge senza alcun dubbio è la continua associazione tra la figura del toro e il simbolo del Sole. Questo ci spinge a riflettere, ancora, sulla simbologia del toro come garante di immortalità e potenza biologica. A tal proposito, si è già potuto constatare quanto l’animale sia sacro a numerose divinità uraniche e che molti riti, incentrati sulla morte e la resurrezione a nuova vita, sono incentrati su questo animale e, in particolare, ruotano attorno al taurobolo. Oltre al già citato culto di Mithra, a Roma, anche Attis, Dio della vegetazione, muore e rinasce periodicamente. La sua celebrazione avviene in primavera e, non a caso, attraverso l’uccisione di un toro, animale terrestre strettamente legato ai pascoli, capace di lavare via, con il suo sangue, ogni peccato terreno. I testicoli del toro hanno un’importante funzione nel rituale, poiché il seme, ivi contenuto, è in grado di donare fertilità e promuovere le nascite.
Ma oltre ad essere un animale uranico, il toro è anche ctonio: è epifania del cielo o della terra. In quasi tutta l’Asia il toro nero è connesso al mondo dei morti. I Tatari dell’Altai, ad esempio, sacrificano tori e vacche al Dio degli inferi, sovente rappresentato in groppa ad un toro nero, che cavalca al rovescio, brandendo un’ascia a forma di luna.
La potenza uranica si manifesta in pieno nel “fratello intero” del bue proprio nel momento in cui il toro si contrappone al “pio bove” (Levi, 1984). Il bue, simbolo di lentezza, grossezza, tranquillità, è ugualmente legato ai campi e ai culti agrari. Ma nel bue, la soppressione del potere fecondatore e incontrollato fa risaltare, per contrasto, la sessualità libera ed indomita del toro: la castità mette in luce l’importanza della sessualità. Proprio così, manifestandosi o negandosi del tutto, il principio attivo uranico esprime, nel toro, la sua forza in maniera assoluta: libero feconda, represso non genera vita.

 

Bibliografia

  • Aristofane, Rane, 343
  • Capasso Bartolomeo, Napoli greco-romana, Napoli, Società napoletana di storia patria, 1905.
  • Chevalier Jean e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, Milano, BUR Rizzoli, 2016.
  • Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
  • Frazer James, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino, Bollati Boringhieri, 1973.
  • Hood Sinclair, La civiltà di Creta, Roma, Newton Compton, 1981.
  • Levi Primo, Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 1984.
  • Napolitano Felicia, Napoli e il culto del dio Ebone, Antiqua, Anno III, n. 9, 1978.
  • Pozzoli Giovanni, Dizionario storico-mitologico di tutti i popoli del mondo, vol. II, Milano, Batelli e Fanfani, 1820.
  • Ruotolo Giuseppe, Corpus nummorum Rubastinorum, Bari, Edipuglia, 2010.

Sitografia

Immagini

  • in testata: Toro Farnese (Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Inv6002 n02).
  • in evidenza: Europa sul toro salutata dalle compagne (affresco 20-25 d.C. ca., Pompei, Casa di Giasone – Museo Archeologico Nazionale di Napoli).



Il Marinaio oceanico

«Il ciel ti sorride, graziosa navicella, poiché le nuvole non fan sopra di te scuro, né le acque si commovono da balzarti qua e là, sendovi tanto alito che basti per mandarti innanzi colle tue vele. […] Voga, voga, graziosa navicella ovunque». Così, nel 1839, il poeta risorgimentale Luigi Cicconi, nel giornale da lui diretto “Museo scientifico, letterario ed artistico”, comincia a descrivere l’Argonauta argo.

Il poeta sottolinea come Linneo stesso non abbia dato a caso quel binomio a quel curioso mollusco la cui “conchiglia” è «simmetrica, sottilissima, in forma di spira, il cui ultimo cerchio è così grande in paragone degli altri, che la conchiglia rassomiglia ad una scialuppa: e quella spira fu la sua poppa». Il binomio Argonauta argo, infatti, trae origine dal mito greco degli Argonauti, gruppo di eroi che, sotto la guida di Giasone, intraprendono l’avventuroso viaggio a bordo della famigerata nave Argo, che li condurrà alla conquista del vello d’oro.

Costellazione Argo navis (tratto da: Johannes Hevelius, Firmamentum Sobiescianum sive Uranographia).


 
Già nel 300 a.C. Aristotele descriveva l’argonauta come “un marinaio oceanico in una barca di conchiglia le cui braccia dorsali sono adorne di alte vele per catturare il vento”.
Non è un caso che uno dei nomi in lingua napoletana di questo animale sia maistrale (Soppelsa, 2016), il vento che spira da Nord-Ovest, e che quindi evocherebbe l’uso delle braccia espanse che l’animale userebbe a mo’ di vela; ciò, inoltre, giustificherebbe alcune illustrazioni che ritraggono Argonauta argo mentre galleggia a filo d’acqua con le braccia dorsali espanse protese verso l’alto.

Una femmina di Argonauta argo raffigurata con le braccia espanse rivolte in alto (tratta dall’articolo L’argonauta di Luigi Cicconi)


 
Ebbene, ad oggi sono molti i comportamenti di questo mollusco a rimanere sconosciuti e non possiamo affermare con certezza se il veleggiare a filo d’acqua sia parte del comportamento natatorio dell’argonauta. Sappiamo però che sia l’ooteca, l’erroneamente chiamata “conchiglia”, sia il paio di braccia espanse, contribuiscono, ma solo in parte, alle abitudini natatorie del mollusco.

Tra i maschi e le femmine è presente uno spiccatissimo dimorfismo sessuale: il maschio, infatti, può arrivare ad avere 1/5 delle dimensioni della femmina, non ha le braccia espanse e non produce l’ooteca. I maschi di argonauta fanno inoltre parte di quegli Octopodi che producono l’ectocotile. Considerato a lungo una sorta di verme parassita autonomo, l’ectocotile è un braccio del mollusco, di fatto uno pseudo pene, che si espande, si stacca dal corpo del maschio e, nuotando libero, va alla ricerca della cavità palleale della femmina fissandovisi con le spermatofore. Il braccio verrà successivamente rigenerato (vedi fig. in evidenza).

Solo la femmina è dotata dunque del paio di braccia espanse. Queste sono fornite di ghiandole atte alla secrezione e, se necessario, alla riparazione, dell’ooteca, un sottile strato di carbonato di calcio che la femmina produce prima della sua maturazione e che usa letteralmente come casa, entrandoci quasi completamente, lasciando all’esterno solo occhi, becco e sifone. Dalla sottigliezza e fragilità dell’ooteca deriva il soprannome “nautilus di carta”, insieme con la sua caratteristica forma che segue la spira della sezione aurea, ma che, a differenza delle vere e proprie conchiglie dei cugini nautiloidei, non è una struttura atta al nuoto (fig. in testata).

Anche le due braccia espanse rimangono fuori dall’ooteca, aggrappate ai suoi lati a scopo protettivo e per mantenerla nella sua posizione corretta. All’interno dell’ooteca, la femmina deporrà le uova, il cui numero varia in base alla dimensione dell’esemplare e se ne separerà solo in caso di estremo pericolo.
L’utilizzo delle braccia espanse sembra dunque essere limitata alla secrezione, protezione e stabilizzazione dell’ooteca e, ad oggi, non è stato confermato dall’osservazione un loro ruolo nella navigazione in superficie del cefalopode. Tra l’altro, questa sua salita in superfice sfruttando la fuoriuscita dell’acqua dal sifone e l’ooteca come camera d’aria, per poi ridiscendere nei fondali sfruttando un’ulteriore propulsione ottenuta fuori dall’acqua, rappresenta solo una piccola parte del nuoto dell’argonauta.

Schema di nuoto della femmina.


 
Generalmente, infatti, l’argonauta vive in prossimità dei fondali marini tropicali e subtropicali dove si nutre di molluschi pelagici e granchi, catturando le sue prede come un gigantesco anemone marino con le braccia estese. Altro comportamento osservato è il suo spostarsi attaccato a materia galleggiante, quali meduse, salpe, larve di stomatopodi, detriti di piante od altro. Questo adattamento potrebbe consentire all’organismo di muoversi passivamente di notte sulle acque superficiali per deporre le uova e rilasciare le larve.
Molto ancora riguardo le abitudini di questo unico cefalopode rimane un mistero, così come parte della sua anatomia interna. Per rappresentarla in quest’articolo, per la prima volta nella sua interezza, si sono seguiti i dati anatomici reali, quali l’anatomia della radula e delle mascelle, ma per mancanza di altrettanti dati scientifici reali, parte dell’anatomia è stata anche ipotizzata, come la posizione degli organi interni e le ghiandole delle braccia espanse.

Anatomia di una femmina adulta di Argonauta argo (disegno di Piergiacomo Rameri).


 
In attesa di ulteriori studi che svelino i segreti dell’argonauta possiamo solo accettare per verosimile quello che ad oggi ci è pervenuto. Forse i nostri antenati ci hanno visto giusto ed allora perché non smettere di immaginarci il nostro maistrale veleggiare nel Mediterraneo tra le barche dei pescatori…

Al tuo passaggio nessuno si turba, ed uomini o animali si stan queti attendendo a’ lor travagli o ai lor piaceri. […] Voga, Voga. Non il cielo, non la terra e non il mare congiurano contro di te, navicella gentile. Luigi Cicconi

 

Bibliografia

  • Luigi Cicconi, L’argonauta, «Museo scientifico, letterario ed artistico; ovvero, Scelta raccolta di utili e svariate nozioni in fatto di scienze, lettere ed arti belle», I (1839), pp. 329-331.
  • Samuel Peckworth Woodward, A manual of the Mollusca: a treatise on recent and fossil shells, 2ª ed., London, Virtue & Co., 1868.
  • Adolf Naef, Die Cephalopoden, vol. 35 di Fauna und Flora des Golfes von Neapel […] herausgegeben von der Zoologischen Station zu Neapel, Berlin, R. Friedländer & Sohn, 1821 («Monographie», 35).
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.

Sitografia

  • Food Habits of Albacore, Bluefin Tuna, and Bonito In California Waters – content.cdlib.org/view?docId=kt8290062w&chunk.id=d0e1781&brand=c…here&doc.view=entire_text

 

Immagini

  • in testata: visione laterale e frontale dell’ooteca di Argonauta argo (disegno di Piergiacomo Rameri)
  • in evidenza: dimorfismo sessuale nella specie Argonauta argo, a sinistra la femmina a destra il maschio (disegno di Piergiacomo Rameri).



La caccia al cervo

La caccia è un’attività che ha radici preistoriche, compagna dell’uomo fin dagli albori della specie. In passato essa ha rappresentato una fonte primaria di sostentamento per l’uomo durante la condizione di cacciatore-raccoglitore; l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento non ha comunque inficiato la sua importanza, in quanto fonte di proteine aggiuntive e materiali utili, quali ossa, pellicce o penne. Con il passare del tempo questa pratica ha acquistato anche un significato sociale, svolta professionalmente o a scopo ricreativo, prerogativa delle classi sociali più elevate. In gran parte dell’Europa medievale aristocrazia e clero godevano del diritto esclusivo di cacciare (e a volte pescare) in zone esclusive del territorio feudale. Ne è un esempio la vicina riserva degli Astroni, che per lunghi anni è stata riserva di caccia reale.
Tra gli animali usati dall’uomo per l’addestramento alla caccia i cani sono stati i più importanti e diffusi. Col tempo, affinandone le predisposizioni naturali, sono stati selezionati cani con caratteristiche specifiche per i differenti tipi di caccia condotti dall’uomo. L’utilizzo dei cani è fattore quasi indispensabile in svariati tipi di caccia.
Tra i più celebri si ricorda la caccia al cervo. Occorre fare una precisazione poiché quando si parla di caccia al cervo ci si riferisce in realtà alla famiglia Cervidae, di cui fanno parte anche caprioli e daini, e non esclusivamente alla specie Cervus elaphus, comunemente chiamato cervo nobile.

La pratica della caccia al cervo risale al Paleolitico, a partire dal quale veniva cacciato per la sua carne e per i suoi palchi. Complice di ciò anche la presenza particolarmente numerosa della specie, diffusa in tutte le foreste d’Europa fin dalla preistoria. Il cervo figura anche come uno dei soggetti ricorrenti nella pittura rupestre.

Fino al XIV secolo nella caccia al cervo si adoperava l’arco, poiché era l’unica arma da tiro in circolazione. Non era facile abbattere un animale di tali dimensioni, ma gli archi, realizzati con legno di tasso o nocciolo, erano dotati di una lunga gittata ed erano dunque molto potenti; il successo del loro uso dipendeva, oltre che dalla precisione del tiro, dall’abilità dei tiratori e dalle caratteristiche tecniche che determinavano il livello di penetrazione della freccia. Generalmente obiettivo dell’arciere era ferire il cervo in modo da poter essere più facilmente inseguito; braccato ed estenuato, l’animale era raggiunto dai cacciatori che lo finivano.

Caccia al cervo con l'arco (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum [...], Anversa, Philippe Galle, 1602).

Caccia al cervo con l’arco (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum […], Anversa, Philippe Galle, 1602).


 
Le battute di maggior successo erano quelle che si svolgevano durante la stagione degli amori quando era possibile trovare i cervi grazie al loro bramito ed era anche più facile avvicinarli rispetto ad altri periodi dell’anno.

Il cervo non è un corridore resistente ma un buon velocista per cui si ricorreva alla caccia denominata alla corsa o all’inseguimento, una caccia a cavallo, destinata dunque solo ai cavalieri. Una muta di cani era sguinzagliata contro la preda con il compito di estenuarla, mentre la cavalleria seguiva la scena e prendeva parte all’uccisione con l’ausilio di frecce o lance. La caccia alla corsa fu l’esercizio venatorio dei re e dell’alta aristocrazia. I cronisti medievali testimoniano che il tutto si articolava in otto fasi:

  • la cerca, affidata ad un cercatore di piste incaricato di scovare il punto esatto della boscaglia nel quale il cervo si trova;
  • l’assemblea dei cacciatori, che valutava le informazioni fornite dal battitore ed elaborava la strategia da seguirsi per la caccia;
  • la posta, durante la quale i cani venivano portati il più vicino possibile alla preda;
  • la mossa, quando il cercatore di tracce trovava il segno fresco della preda per i cani;
  • la corsa, quando il branco dei cani inseguiva il cervo per fiaccarlo;
  • il latrato, quando il cervo, ormai troppo debole per correre, si gira ed affronta i cani quale extrema ratio, a questo punto il branco viene richiamato dopodiché uno dei cacciatori, smonta e finisce l’animale;
  • lo smembramento;
  • la curée, quando i cani vengono ricompensati del loro apporto alla caccia con pezzi freschi della carcassa, affinché ricordassero il sapore del premio.

Frans Snijders e Jan Wildens, caccia al cervo (Royal Museums of Fine Arts of Belgium - foto di Sailko, wikipedia).

Frans Snijders e Jan Wildens, caccia al cervo (Royal Museums of Fine Arts of Belgium – foto di Sailko, wikipedia).


 
In lingua inglese il vocabolo bay, latrato, indica anche la condizione di chi è spalle al muro; ancora oggi è in uso il costrutto to bring a deer to bay, ridurre agli estremi un cervo.

Si poteva adoperare anche un’altra tipologia di caccia al cervo, più lenta, che prevedeva di avvicinarsi il più possibile all’animale stando in sella al cavallo (la cui presenza, come quella degli altri quadrupedi, non spaventava il cervo) e di scoccargli poi contro le frecce.

Durante il XIV secolo in Europa si incominciò ad utilizzare la balestra. La maggior forza di penetrazione e l’uso di munizioni più corte, con cui si aveva una mira facilitata, rendeva il suo uso più vantaggioso dell’arco. Per un tiro di successo non c’era bisogno di tanta forza fisica né di particolari capacità, questo faceva sì che la balestra potesse avere un bacino di utenza maggiore. Per quanto riguarda la tecnica di caccia, la balestra, pur portando dei miglioramenti, non comportò significativi cambiamenti. Era sempre necessario avvicinarsi alla preda, colpirla con le frecce delle balestre e cercare gli esemplari feriti con i cani per poi abbatterli con le armi a mano.

Nel XIV secolo sorgono numerose riserve di caccia, che avevano il duplice vantaggio di aumentare la popolazione di selvaggina e rendere più agevole l’esercizio della caccia. L’allevamento degli animali nelle riserve, inoltre, consentiva di organizzare battute di caccia in ogni stagione dell’anno a seconda delle necessità. La riserva non era semplicemente uno spazio recintato, ma un ambiente accuratamente gestito: venivano fornite le risorse per la sopravvivenza degli animali, soprattutto nei periodi invernali, e venivano predisposte delle camere per il pernottamento del sovrano e dei suoi ospiti. La caccia era per il signore l’occasione di dispiegare abilità, coraggio, magnificenza, e con il banchetto finale, ospitalità e generosità; quindi quest’attività si traduceva in una manifestazione della potenza del signore.

Nonostante il XV secolo vide l’avvento delle prime armi da fuoco, la balestra costituì ancora a lungo l’arma preferita per la caccia al cervo; i fucili infatti erano molto più costosi e meno agevoli da portare, in particolare bisognava prestare attenzione che la polvere da sparo non si bagnasse, risultando poi inutilizzabile. Il perfezionamento di queste armi incentivò negli anni successivi il loro utilizzo anche in campo venatorio.

Caccia al cervo con armi da fuoco (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum [...], Anversa, Philippe Galle, 1602).

Caccia al cervo con armi da fuoco (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum […], Anversa, Philippe Galle, 1602).


 
C’è da dire che la caccia al cervo prescindeva dal semplice diletto ed era arricchita di significati sociali e addirittura religiosi. Il cervo era il simbolo del Cristo e molto presente nella mitologia cristiana. Di fronte al problema della risonanza negativa delle corna, elemento simbolico connotante il diabolico, la Chiesa adottò una soluzione principalmente terminologica: le fonti ecclesiastiche scelsero di chiamare “rami” le corna del cervo e “corna” le zanne del cinghiale, visto effettivamente come simbolo del demonio.

In Italia, al giorno d’oggi, la caccia al cervo è esclusivamente selettiva (tranne che in Friuli Venezia Giulia) e consentita solo nelle due forme alla cerca e all’aspetto; entrambe le tipologie prevedono l’azione del solo cacciatore, che nel primo caso si apposta in attesa della preda, nel secondo si muove nelle zone da essa frequentate. È vietato l’uso dei cani da seguita. L’unico caso in cui viene impiegato un ausiliare, costituito dal cane da traccia o da sangue, è durante le operazioni di recupero dell’animale selvatico ferito.

 

Bibliografia

  • Archeologia medievale. Problemi di storia dell’alimentazione nell’Italia medievale, VIII. All’insegna del giglio-CLUSF, 1981
  • Guido Alfani, Matteo Di Tullio, Luca Mocarelli. Storia economica e ambiente italiano. Franco Angeli, 2012
  • Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno svevo, atti delle settime giornata normanno sveve, Università degli Studi di Bari, edizioni Dedalo, Bari 1985

 

Immagini

  • in testata: Paolo Uccello Caccia notturna (Oxford, Ashmolean Museum, 1470 ca.)
  • in evidenza: Caccia al cervo (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum […], Anversa, Philippe Galle, 1602).



Audacia e fierezza in combattimento: il cinghiale

Il cinghiale (Sus scrofa Linnaeus, 1758) è un mammifero artiodattilo della famiglia dei suidi, considerato un’ambìta preda per la sua carne, ma contemporaneamente un fiero avversario per la sua fermezza in combattimento. Per questo strettissimo legame con l’uomo, il cinghiale ricoprì spesso ruoli da protagonista nella mitologia di numerose popolazioni, cessando, recentemente, di essere una fonte di cibo di primaria importanza per l’uomo, soppiantato dal suo discendente domestico, il maiale.

Gli esemplari adulti misurano fino a 180 cm di lunghezza, per un’altezza al garrese che può sfiorare il metro e un peso massimo di un quintale circa (de la Fuente, 1983). Sussistono tuttavia grandi variazioni di dimensioni e peso a seconda delle sottospecie, con tendenza all’aumento muovendosi da Sud-Ovest a Nord-Est: gli esemplari spagnoli di cinghiale, infatti, raramente superano gli 80 kg di peso, mentre in Russia si ha notizia di esemplari di peso superiore ai 300 kg. Ad ogni modo, i maschi hanno dimensioni e peso maggiori rispetto alle femmine.
Nelle Alpi italiane il peso oscilla tra i 100 ed i 200 kg: nel Centro e Sud Italia e in Sardegna, invece, il peso medio è sugli 80÷90 kg, con esemplari che possono raggiungere 150 kg, come il cinghiale sardo.

Sus scrofa Linnaeus, 1758 (foto di 4028mdk09, wikipedia)

Sus scrofa Linnaeus, 1758 (foto di 4028mdk09, wikipedia).

La caratteristica del cinghiale sono i canini, trasformati in zanne: si tratta di denti a crescita continua, presenti in ambedue i sessi, ma che tuttavia solo nel maschio hanno dimensioni tali da protrudere al di fuori della bocca, inarcandosi verso l’alto. I canini inferiori sono detti difese e sono più grandi di quelli superiori, denominati coti: profondamente conficcati nella mandibola, essi possono raggiungere (nel cinghiale maschio) anche i 30 cm di lunghezza, mentre sono consuete lunghezze comprese fra i 15 e i 20 cm. In ogni caso, zanne eccessivamente lunghe risultano svantaggiose per l’animale, in quanto incurvandosi all’indietro divengono inutili come arma d’offesa. Le zanne cominciano a spuntare a partire dal secondo anno d’età, e, nel giro di un anno, quelle inferiori divengono più lunghe di quelle superiori. Le zanne hanno per il cinghiale una duplice funzione: vengono utilizzate sia come strumenti da lavoro, ad esempio per facilitare l’attività di scavo nel terreno, che come strumenti di offesa, per difendersi dai predatori o per competere con gli altri esemplari durante il periodo degli accoppiamenti.

Il cinghiale euroasiatico è uno dei mammiferi terrestri con la maggior distribuzione geografica. Il suo areale originale si estende dalla Spagna al Giappone, e include anche il Nord-Africa. Attualmente, in seguito a introduzioni operate in passato spesso a scopi venatori, questa specie si ritrova in tutti i continenti tranne l’Antartide. Alla stessa specie del cinghiale appartiene il maiale domestico, di cui è il progenitore selvatico e con il quale si può ibridare producendo prole fertile. L’interesse per il cinghiale non è soltanto inerente alla conservazione o di tipo venatorio, ma anche economico. Il patrimonio genetico di questa specie si può infatti considerare come un serbatoio di variabilità genetica disponibile anche per le forme domestiche.
Contrariamente ad altri ungulati, il cinghiale ha un elevato potenziale riproduttivo, e si adatta anche a condizioni ecologiche molto differenziate. Ciò nonostante, la caccia indiscriminata e i cambiamenti del territorio indotti dall’uomo negli ultimi secoli avevano provocato la sua estinzione in molte regioni europee, come ad esempio l’Inghilterra, la Scandinavia, e molte aree della Russia Occidentale. Anche in Italia la numerosità e la distribuzione del cinghiale hanno subìto una grande riduzione in passato. Una volta presente in tutta la penisola, all’inizio del ventesimo secolo le uniche aree dove era ancora esistente erano la Sardegna e, in maniera molto discontinua e irregolare, in Centro-Italia. Benché nel cinghiale come in quasi tutte le specie il riconoscimento di sottospecie sia molto difficile, in Sardegna e in Centro-Italia furono identificate due sottospecie endemiche: rispettivamente Sus scrofa meridionalis e Sus scrofa majori. Successivamente, ma soprattutto a partire dagli anni ’50, in Italia come nel resto d’Europa si assistette a una significativa ripresa demografica. Le cause di questo fenomeno, che adesso è divenuto un vero problema per i danni arrecati dalla specie alle colture e per il disturbo ecologico che sta provocando, sono state molte. Oltre a una naturale ricolonizzazione da aree adiacenti, ad esempio dalla Francia, hanno, con ogni probabilità, contribuito il cambiamento climatico, la modificazione delle pratiche agricole, la collocazione di siti artificiali di foraggiamento e la riduzione del numero di predatori. Secondo molti studiosi, però, un contributo determinante alla espansione demografica del cinghiale in Italia è stato dato dalle reintroduzioni. Infatti, in molte aree, animali di origine autoctona ma anche alloctona, provenienti soprattutto dal’Europa centro-orientale (Ungheria, Polonia, ecc.) furono utilizzati per pratiche di ripopolamento. Da un punto di vista della conservazione della specie, quindi, è necessario capire se in Italia esistano ancora delle popolazioni relitte di cinghiale, riconducibili cioè a gruppi (o sottospecie) distinte dagli altri animali presenti in Europa. Oppure se tali popolazioni, presenti in passato, siano ormai scomparse, geneticamente diluite durante l’ibridazione subìta dai loro antenati con animali alloctoni (Frankham et al., 2006).

I cinghiali sono animali dalle abitudini crepuscolari e notturne: durante il giorno preferiscono riposare distesi in buche nel terreno che scavano col muso e gli zoccoli fra i cespugli, per poi ingrandirle con l’usura. Durante l’inverno, essi hanno l’abitudine di imbottire le loro buche con frasche e foglie secche.
Sono certamente animali sociali, che vivono in gruppi composti da una ventina di femmine adulte e dai loro cuccioli, guidate dalla scrofa più anziana: in alcune zone particolarmente ricche di cibo, tuttavia, si trovano gruppi che includono anche più di 50 animali, spesso risultato della fusione di più gruppi.

Tracce del passaggio di cinghiali, probabilmente ibridi tra popolazioni autoctone e cinghiali provenienti dal Nord Europa; presso l’Oasi WWF Lago di Conza (Av).

Tracce del passaggio di cinghiali, probabilmente ibridi tra popolazioni autoctone e cinghiali provenienti dal Nord Europa; presso l’Oasi WWF Lago di Conza (Av).

I maschi più anziani conducono una vita solitaria per la maggior parte dell’anno, mentre i giovani maschi che ancora non si sono accoppiati tendono a riunirsi in piccoli gruppi. Il territorio appartenente a ciascun gruppo viene delimitato tramite secrezioni odorose della zona labiale ed anale: i territori dei maschi sono solitamente più grandi di quelli delle femmine.
I vari esemplari comunicano fra loro attraverso una vasta gamma di suoni, che comprendono una serie di grugniti a varie frequenze, grida e ruggiti che possono avere la funzione di comunicare la propria appartenenza ad un gruppo o la disponibilità all’accoppiamento o al combattimento.
I cinghiali sono noti per l’indole aggressiva: se presi alla sprovvista, anche se feriti, attaccano, combattendo strenuamente in modo tale da rappresentare un pericolo per le vittime di tali attacchi.
Gli attacchi dei cinghiali, sebbene raramente mortali per predatori come l’uomo o l’orso, possono lasciare ricordi indelebili nell’aggressore, come cicatrici e mutilazioni.
Si tratta di animali che hanno molta cura della loro igiene: l’abitudine di rotolarsi nel fango, definita ‘insoglio’, è la prima azione che l’animale compie dopo essersi svegliato e ha la duplice funzione di rinfrescare il corpo nei mesi caldi, proteggendolo da scottature dovute ai raggi solari, e di favorire la cicatrizzazione delle numerose ferite, di entità più o meno grave, che l’animale spesso si procura combattendo o muovendosi nel sottobosco.
Il principale predatore dei cinghiali è l’uomo: in genere è abbastanza raro che un predatore scelga di cacciare questi animali, se dispone di altre specie meno impegnative da cacciare. I cinghiali, infatti, sono animali forti, che non esitano ad attaccare per primi se disturbati.
Tuttavia il lupo si è dimostrato un temibile predatore per il cinghiale: nonostante tendano a nutrirsi dei cuccioli lasciati temporaneamente incustoditi dalle femmine, alcune popolazioni locali di lupo (fra cui quelle italiane) si nutrono abitualmente anche di cinghiali adulti (Mattioli et al., 1992).

Nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio, si comprende che già nel 77-78 d.C. si era a conoscenza di molti elementi inerenti alle abitudini riproduttive dei cinghiali. A testimonianza di ciò si riporta un breve estratto:
«Le femmine del cinghiale partoriscono una volta l’anno. Durante il periodo dell’accoppiamento i maschi sono molto feroci. Allora combattono fra loro e cercano di rendersi duri i fianchi sfregandoli contro gli alberi e ricoprendosi di fango’. Le femmine nel periodo della maternità diventano più feroci e questo avviene in genere per animali di ogni tipo. La riproduzione inizia per i cinghiali maschi solo ad un anno. In India le loro zanne ricurve sono lunghe un cubito; entrambe escono dal muso, e altrettante dalla fronte, come corna di un vitello. Il pelo è di colore simile al bronzo negli esemplari selvaggi, negli altri è nero. In Arabia invece non vive la specie dei suini.
In nessuna specie è tanto facile l’unione con il corrispettivo selvatico, e gli antichi chiamavano i piccoli cosi nati ‘ibridi’ o semiselvatici, appellativo che passò anche agli uomini, ad esempio a Gaio Antonio, collega di Cicerone nel consolato. Non soltanto nei maiali, ma anche in tutti gli altri animali, di qualunque specie esista l’esemplare domestico, di questa si trova anche il corrispondente selvaggio, come esistono tante razze di uomini selvaggi di cui già abbiamo parlato» [Plinio il Vecchio, Naturalis historia, II, 212].
Il simbolismo del cinghiale ha radici antichissime, essendo presente in molte tradizioni indoeuropee e, per certi aspetti, anche al di fuori di esse, a riprova che tutte le tradizioni arcaiche sono, in qualche modo, correlate, pur presentando notevoli differenze nell’àmbito delle diverse culture.
Il mito è nato dalla tradizione iperborea, nel cui àmbito il cinghiale rappresenta l’autorità spirituale, rapportandosi al ritiro solitario del druido o del brahmano nella foresta. Il suo opposto è l’orso, emblema del potere temporale. Poiché in Gallia, come in Grecia, si soleva praticare la caccia al cinghiale, esso divenne l’immagine del potere spirituale abbattuto dal potere temporale.
Nelle varie tradizioni il cinghiale viene sconfitto e ucciso, con un evidente simbolismo di sostituzione di un regno a un altro: in Cina è catturato da Yi l’Arciere; Ercole cattura il cinghiale di Erimanto; Meleagro, con l’ausilio di Teseo e Atalanta, uccide quello di Calidone. Quest’ultimo, mandato sulla terra da Ares come punizione per Adone, trovò la morte nella caccia calidonia, organizzata dal re Oineo di Calidone. Il cinghiale era stato inviato da Artemide a distruggere i campi di Calidone perché Oineo era venuto meno nelle offerte votive succedute all’eccellente raccolto calidonio trascurando la dea. Per liberarsi della belva, il re organizzò una caccia in cui chiese la partecipazione di quasi tutti gli eroi del mito greco: tra gli altri, Castore e Polluce, i Cureti, Ida e Linceo, Admeto e Atalanta (Graves, 1955).
Di questo mito scrisse Omero nel libro IX dell’Iliade:
Ella dunque, stirpe divina, l’Urlatrice, irata, gli mandò contro un feroce cinghiale selvaggio, zanna candida, che prese a conciar male la vigna d’Oineo; molti alberi alti stendeva a terra, rovesci, con le radici e con la gloria dei frutti. L’uccise Melèagro, il figliuolo d’Oineo, chiamando cacciatori da molte città e cani, ché vinto non l’avrebbe con pochi mortali, tant’era enorme, e gettò molti sulle pire odiose [Omero, Iliade, libro IX].

Meleagro e il cinghiale (copia romana in marmo, da un originale greco del IV a.C., Museo Pio-Clementino)

Meleagro e il cinghiale (copia romana in marmo, da un originale greco del IV a.C., Museo Pio-Clementino)

All’episodio dell’uccisione del cinghiale calidonio è legata anche la fondazione della città di Benevento: una leggenda narra che Benevento debba le sue origini all’eroe greco Diomede, sbarcato in Italia dopo la distruzione e l’incendio di Troia, e che avrebbe riservato per la città una zanna del cinghiale calidonio (simbolo di Benevento) ucciso da suo zio Meleagro.
Nell’àmbito della successione ciclica, il nostro ciclo di esistenza è designato, nella mitologia indù, come quello del cinghiale bianco. Il cinghiale (varâha), in questa dottrina, non rappresenta soltanto il terzo dei dieci avatara di Vishnu nel Manvantara attuale, ma il nostro Kalpa intero, cioè tutto il ciclo della manifestazione del nostro mondo, è designato come “Shweta varaha Kalpa”, ovvero “il ciclo del cinghiale bianco” (Guénon, 1962).
Il cinghiale, insomma, è portatore di un carattere iperboreo, cioè primordiale. È la personificazione di Vishnu, allorché riportò la terra alla superficie delle acque e la organizzò.
In Giappone è associato alla temerarietà e al coraggio e lo stesso dio della guerra, Usa-Hachiman, è rappresentato su di un cinghiale.
Figura, inoltre, frequentemente sulle insegne militari galliche, in particolare su quelle dell’Arco di Trionfo d’Orange e sulle monete dell’indipendenza. Quest’animale non ha alcun rapporto con la classe guerriera, anzi, quale simbolo della classe sacerdotale, le si pone in netto contrasto. Il cinghiale è, al pari di un druido, in stretto rapporto con la foresta: si nutre di ghiande di quercia, e la femmina, simbolicamente circondata da cinghialetti, scava la terra ai piedi del melo, simbolo di immortalità.
Nella tradizione celtica, spesso è confuso con il maiale (i Celti avevano branchi di maiali tenuti quasi allo stato selvatico), ma il cinghiale costituisce il cibo dei sacrifici della festa di Samain ed è animale sacro a Lug. Fra i Celti era un importante animale sacro e figure di cinghiale servivano come ornamento per elmi e scudi: la carne di cinghiale veniva posta nella tombe dei morti come viatico per dar loro la forza nel viaggio verso l’aldilà. Sculture in pietra, a Euffigenux, e in bronzo, a Neuvy-en-Sullias, in Francia, testimoniano la grande importanza di questo simbolo animale nell’Antica Europa occidentale. (Biedermann, 1989)
Ancora in riferimento alle tribù celtiche, gli Edui avevano come animale totemico il cinghiale, divenuto poi simbolo della città di Milano; probabilmente gli Edui erano, infatti, tra le popolazioni fondatrici di Milano.
In nessun caso, neanche nei testi irlandesi di ispirazione cristiana, il simbolismo del cinghiale assunse sfumature di malvagità, e in questo esiste, quindi, una profonda contrapposizione tra mondo celtico e tendenze generali del cristianesimo. Si pensi, a tal proposito, a Dürer che pone, nel presepe natalizio, il cinghiale e il leone al posto del bue e dell’asino.

Emblema della legione X Fretensis (dalla foto di Yoav Dothan, wikipedia).

Emblema della legione X Fretensis (Foto di Yoav Dothan, Wikipedia).

Nella mitologia norrena, il cinghiale era associato alla fertilità, e si può trovare spesso nell’iconografia del dio-cinghiale (Gullinbursti) insieme al dio norreno Freyr. Freyr venne poi associato, nella cristianità, a San Nicodemo da Cirò e a Sant’Antonio Abate, che, infatti, spesso è ritratto con un maiale o un cinghiale.

In generale, nelle tradizioni antiche, questo animale aggressivo che spunta impetuosamente dal sottobosco è simbolo delle intrepide schiere di guerrieri. Si ricorda anche un cinghiale come simbolo della Legio X Fretensis (dello Stretto) legione romana creata da Augusto nel 41-40 a.C. e celebre per la sua azione militare nella prima guerra giudaica (66–73 d.C.) sotto il comando supremo del futuro imperatore Vespasiano. Nel 66 questa legione si recò insieme alla V Macedonica ad Alessandria per un’invasione dell’Etiopia, pianificata da Nerone, ma, contrariamente a quanto progettato, esse furono impiegate nella soppressione della rivolta giudaica (Grimal, 1987).

Il cinghiale fu simbolo anche della Legio XX Valeria Victrix , arruolata da Augusto (dopo il 31 a.C.). Questa legione romana prestò servizio in Spagna, in Illyricum e in Germania, prima di partecipare all’invasione della Britannia nel 43; fu attiva almeno fino all’inizio del IV secolo.

Antefissa Romana raffigurante l'insegna della Legio XX Valeria Victrix.

Antefissa Romana raffigurante l’insegna della Legio XX Valeria Victrix.

Per quel che riguarda strettamente le popolazioni italiche, in particolare che si stabilirono nel Sannio, i Caudini avevano come animale totemico, nella ‘primavera sacra’, il cinghiale (Salmon, 1995). I Caudini erano una delle quattro tribù che costituivano il popolo dei Sanniti e che facevano parte della confederazione che andava sotto il nome di Lega sannitica. Fu la tribù che maggiormente risentì dell’influenza ellenica.

Vivevano ai confini della pianura campana (Monte Taburno e Monti Trebulani) nella valle dell’Isclero e lungo il fiume Volturno. I loro centri principali erano Caudium, Saticula e Telesia, ma città caudine erano anche quelle situate ad ovest del Volturno: Caiatia, Cubulteria e Trebula Balliensis (Tagliamonte, 1997).

Impavido tra gli animali, dotato di virtù guerriere per natura, il cinghiale è il simbolo del coraggio, dell’indomita capacità che accomuna uomini e animali di difendersi e, come i più nobili tra i guerrieri, di esprimere la propria volontà di sopravvivenza. Questo simbolo rappresenta una nobile e sacra visione del mondo costantemente legata al dominio spirituale e non esclusivamente suggerita da bisogni materiali. L’augurio è quello di essere guidati, in questo momento storico di profonda crisi spirituale, dalla sua forza e dal suo coraggio, per affermare finalmente la nostra volontà di preservare e tramandare i culti e le tradizioni che hanno, nei millenni, definito la fisionomia dei nostri popoli.

Bibliografia

  • Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Milano, Garzanti Editore, 1991.
  • Richard Frankham, Jonathan D. Ballou, David A. Briscoe, Fondamenti di Genetica della conservazione, Bologna, Zanichelli, 2006.
  • Félix Rodríguez de la Fuente, Il cinghiale, Segrate (MI), Giorgio Mondadori e Associati, 1983 («I taccuini di Airone», 3).
  • Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1955.
  • Pierre Grimal, Dizionario di mitologia greca e romana, Flero (BS), Paideia, 1987.
  • René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Milano, Adelphi Edizioni, 1975 [prima ed., 1962].
  • Luca Mattioli, Federico Striglioni, Ettore Centofanti, Vito Mazzarone, Nicola Siemoni, Sandro Lovari, Guido Crudele, Alimentazione del lupo nelle Foreste Casentinesi: relazioni con le popolazioni di ungulati domestici e selvatici, in Atti del Convegno sul lupo, Parma, WWF, 1992.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
  • Gianluca Tagliamonte, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carricini, Frentani, Milano, Longanesi, 1997.

 

Immagini

  • in testata: Scena di caccia al cinghiale (sarcofago di Altıkulaç, IV sec. a.C. – Çanakkale, Turchia – part. da una foto di Dan Diffendale)
  • in evidenza: Caccia al cinghiale (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum […], Anversa, Philippe Galle, 1602).



A spese altrui

Gasterophilus sp. è un dittero appartenente alla famiglia Oestridae, noto in napoletano con il termine cruosco [Soppelsa, 2016]. Allo stadio larvale è parassita di equidi domestici e selvatici e vive adeso alle pareti intestinali del suo ospite attraverso alcune parti boccali dette prime mascelle (massille) che sono anche criterio diagnostico per l’identificazione delle nove specie del genere.
Le prime informazioni sulla presenza di Gasterophilus in Campania risalgono al XVI secolo quando il nobile napoletano Pasquale Caracciolo pubblicò nel 1566 La gloria del cavallo.
Nel testo la larva è indicata genericamente come verme mentre il termine taffano si riferisce alla sua forma adulta. Molto ben descritto invece il comportamento irrequieto che caratterizza i cavalli parassitati da Gasterophilus; informazioni disseminate in tutto il testo e dalle quali si evince che l’animale non è più gestibile nemmeno dal suo cavaliere perché quando le mosche «sogliono penetrare sotto la coda o sotto il ventre», il cavallo scalpita e nitrisce, infastidito dal prolungato ronzio. Per allontanare le mosche dalla stalla Caracciolo suggerisce un mazzetto di peli di cavallo legati sulla porta oppure «la cenere de’ peli presi dalla testa del cavallo, mettendosi con aceto e con la lana ristringe ogni scorrimento di sangue», metodo che l’autore fa risalire a Plinio.

I peli cavallini legati in un mazzetto in sù la porta non vi fanno entrar taffani, né quelle mosche, le quali si dicono cavalline. Caracciolo, 1566

Nel 1699, il napoletano Giovanni Battista Trutta pubblicò l’opera Novello giardino della prattica ed esperienza, un vero e proprio trattato sul cavallo che comprendeva anche le malattie e le relative cure. Trutta testimoniò quanto fosse diffuso e pericoloso Gasterophilus per gli allevamenti equini.

Che io avendo fatto aprire più di un cavallo infetto da questo pestifero morbo, non vi ho trovato membro che non fusse offeso. Trutta, 1699

L’erudito napoletano elenca tutta una serie di rimedi per eliminare le larve dall’apparato digerente, tra cui far bere al cavallo tutte le mattine a digiuno un infuso: «E per ammazzare quelli, che sono nello stomaco, dateli la mattina alla digiuna, con mezza misura di biada, o caniglia, due oncie di corallina, o di sementella (e ciò per due, o tre mattine) ed oncie due di solfo, ed oncia mezza di polvere di centaura minore, e mezz’altra di cardo benedetto, che li farà andare morti» [Trutta, 1699].

O pure dateli corno di cervo abbrugiato, con semente di portolaca, e di foglia, e sementella, ana oncia una, quale darete con l’acqua di gramegna, che questa ammazza tutti li vermi. Trutta, 1699

Non mancano nemmeno descrizioni sulla fase larvale di Gasterophilus, indicati come lombrichi corti, e grossi, e larghetti, e di colore rossigno, che alcuna volta suole essere peloso. La larva del dittero non ha veramente dei peli ma spine cuticolari mobili con le quali si sposta nel tratto digerente del suo ospite. Infatti, durante la fase larvale, Gasterophilus occupa nell’ordine: bocca, stomaco o intestino e infine il retto del cavallo. La larva passa nell’ospite circa otto mesi e per questo il ciclo vitale è considerato annuale.

uovo di Gasterophilus sp. su pelo di cavallo

Uovo di Gasterophilus sp. su pelo di cavallo (da cal.vet.upenn.edu).


L’adulto invece vive cinque giorni, tutti dedicati all’accoppiamento e alla deposizione delle uova, che avviene direttamente sull’ospite, soprattutto sugli arti e sui fianchi. Il cavallo, indotto a leccarsi per il prurito causato dall’atto della deposizione delle uova, le introduce nella cavità orale, dove si schiudono e danno inizio al ciclo vitale del parassita.
Gli studi degli ultimi dieci anni stanno analizzando la morfologia dell’adulto, che apparentemente è quella di un qualsiasi dittero. Tuttavia si sta osservando una progressiva atrofizzazione dell’apparato boccale, in quanto resta inutilizzato durante la settimana di vita dell’adulto. Altri studi si sono invece orientati sull’analisi del ruolo ecologico di Gasterophilus, di cui non si sa praticamente nulla, ma che potrebbe essere importante al fine di ricercare un «nemico» naturale per eliminare questi ditteri in modo da non dover più utilizzare larvicidi dannosi per l’ambiente.
Gasterophilus non è quindi tra gli animali scoperti più di recente, anzi notizie se ne ritrovano anche in testi di Aristotele e Plinio il Vecchio, ma di certo solo negli ultimi anni il dittero non è più visto solo come un problema, ma anche come soggetto meritevole di studi da parte di zoologi ed ecologi.
 

Bibliografia

  • Nicola Capasso, I sonetti in lingua napoletana di Niccolò Capassi primario professor di leggi nella Regia Università di Napoli […], a cura di Carlo Mormile, 2 voll., s.l., s.e., 1789.
  • Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo […], Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1566.
  • Cogley T.P., Cogley M.C., 2000, Field observations of the host-parasite relationship associated with the common horse bot fly, Gasterophilus intestinalis, «Veterinary Parasitology», 88(1-2): 93-105.
  • Donald M. McGavin, James F. Zachary, Patologia Veterinaria Sistematica, 4th edition, Elsevier, 2010.
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.
  • Giovanni Battista Trutta, Novello giardino della prattica, et esperienza […] divisa in tre libri […], Napoli, Novello de Bonis, 1699.
  • Violeieda 1788: La Violejeda spartuta ntra buffe e bernacchie pe chi se l’ha mmeretate. Soniette de chi è ammico de lo ghiusto, Napoli, Giuseppe Maria Porcelli, 1788 («Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana», XXII), pp. 1-104; ed. moderna La violeieda spartuta ntra buffe e bernacchie, a cura di Carlachiara Perrone, Roma, Edizioni Benincasa, 1983 («Testi dialettali napoletani. Collana diretta da Enrico Malato», XVII).

 

Immagini

  • in testata: Varie fasi del ciclo vitale (Gasterophilus): imago (a), uova (b) e stadi larvali (c, d, e)
  • in evidenza: Gasterophilus intestinalis (foto di Janet Graham, wikipedia).



Regalità e rinnovamento ciclico: il cervo

Nel simbolismo del cervo sono presenti numerose interpretazioni; alcune di esse si collegano all’espressione della regalità, altre al rinnovamento ciclico della vita, alla rinascita e, spesso, anche all’iniziazione. Le interpretazioni riferibili alla regalità e all’iniziazione non sono necessariamente collegate tra loro, ma rispecchiano entrambe delle precise caratteristiche della specie, così come dovevano essere percepite e comprese dagli uomini che, in età antica, vedevano nei fenomeni naturali una manifestazione di virtù divine da assumere come esempio nella propria esistenza.
Cervus elaphus, chiamato anche cervo nobile, è un mammifero appartenente all’ordine degli artiodattili e alla famiglia dei cervidi. I cervi possono essere descritti come gli ultimi grandi ruminanti selvaggi delle regioni temperate. Ne esistono 43 specie ripartite in 17 generi.
La specie Cervus elaphus presenta una colorazione marrone, tendente al rosso in estate, e questa caratteristica specifica è all’origine dell’attribuzione del nome alternativo di ‘cervo rosso’.

Il mantello, che si presenta liscio, è formato da peli setosi e da fine lanugine e subisce alterazioni che seguono il ciclo delle stagioni, ma che dipendono anche del sesso e dell’età degli individui: il mantello estivo è brunastro o tendente al rossiccio, mentre in inverno è grigio-bruno, con un pelo notevolmente più fitto.

Nelle pitture rupestri risalenti al Paleolitico si trovano numerose raffigurazioni di questi animali, solitamente in veste di preda di caccia o come entità spirituali.

Rappresentazione rupestre di cervide del Paleolitico (grotte di Lascaux, Francia).

Rappresentazione rupestre di cervide del Paleolitico (grotte di Lascaux, Francia).


 
Numerose anche le testimonianze nella toponomastica. In Campania esistono due paesi che, nell’origine etimologica del loro nome, richiamano l’immagine del cervo: Cervino, in provincia di Caserta e Cervinara in provincia di Avellino. A Cervino, tra l’altro, nella frazione di Carmiano, sono conservate le rovine di un antico tempio dedicato a Diana. Più incerta è l’etimologia di Cervinara, che potrebbe derivare sia da ara Cereris che da ara cervis. Gli stemmi comunali di entrambi i paesi riportano l’immagine di un cervo.
Esistono, inoltre, elementi residuali dell’arcaica funzione iniziatica e sacra del cervo nelle manifestazioni folkloristiche molisane: in particolare, a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta al Volturno (provincia di Isernia), ogni anno, in occasione dell’ultima domenica di Carnevale, si tiene una manifestazione in cui è presente un Uomo-Cervo, il quale, durante una rappresentazione rituale, è ucciso da un cacciatore. Gli abitanti del luogo spiegano questo rito ipotizzando che il cervo rappresenti la forza distruttrice della natura, che può improvvisamente scatenarsi e contro cui l’uomo deve combattere. Più probabile potrebbe essere la presenza, in questi paesi, di residui di riti pagani o di ricordi risalenti alle popolazioni italiche e al ruolo totemico del cervo, testimoniato dal gentilicium Cervidius risalente all’epoca in cui, in queste aree, si parlava la lingua osco-sannitica.

Il cervo è una specie associata principalmente agli ambienti boschivi aperti, alternati a distese di prateria in regioni pianeggianti o a debole rilievo; solo secondariamente è stato sospinto nelle zone di foresta densa o in montagna, dalla pressione esercitata dall’uomo. Attualmente frequenta una vasta gamma di ambienti, dalle brughiere scozzesi alle foreste mesofile dell’Europa centrale, alla macchia mediterranea, che caratterizza la parte più meridionale del suo areale.

Il cervo nobile deve il suo nome al portamento regale: con il collo eretto e la camminata elegante, si muove leggero e aggraziato nei boschi fitti, nelle praterie a diverse altitudini; è maestoso, forte e veloce nel trotto e nel galoppo. È stato verificato che, in piena corsa, può raggiungere e superare i 60 km/h; agile e abile nel salto: talvolta, può raggiungere in altezza anche i 2 m e più del doppio in lunghezza.

All’inizio dell’autunno, precisamente da metà settembre a metà ottobre, inizia la stagione degli amori e, in questo periodo, i maschi, che vivono in piccoli gruppi monosessuali, si separano e incominciano a sfidarsi con i bramiti per reclamare il possesso delle femmine su altri maschi pretendenti. Risulterà vittorioso chi riuscirà a intimorire, con il suo verso, gli altri cervi. La forza e la potenza del bramito dipendono dalla stazza dell’animale e dalle sue condizioni di salute. Il bramito è, quindi, indicativo della potenza e della salute dell’animale di sesso maschile. In inverno i palchi vengono persi e i maschi si ritirano nella fitta boscaglia allontanandosi dalle femmine.

La nutrizione negli abbondanti pascoli primaverili rafforza l’organismo dei maschi, che diventano vigorosi e si apprestano ad affrontare il cammino per la lunga ricerca delle compagne. Durante questo periodo, essi abbandonano le loro consuete abitudini e i luoghi prima frequentati, rivelandosi inquieti e irascibili. Il cervo, quindi, raduna intorno a sé da 5 a 15 femmine, che custodisce gelosamente, proteggendole dai rivali. Tuttavia, le lotte tra i maschi sono rare: infatti, prima di passare alle armi i contendenti si sfidano con il potente bramito, che è un suono profondo e cupo, una via di mezzo fra un muggito bovino e un ruggito, e che serve ai rivali per capire chi hanno di fronte: solo quando le capacità vocali si equivalgono i maschi si affrontano in campo aperto, ma anche a questo punto, prima di combattere, mettono in atto una serie di comportamenti rituali, come marciare avanti e indietro lungo linee parallele per esaminare le dimensioni delle corna e la potenza fisica dell’avversario. Il periodo migliore per ascoltare i bramiti dei cervi è settembre-ottobre.
Una volta trascorsi questi giorni, i maschi riformano i branchi, riprendendo le loro consuetudini, mentre le femmine, riunite anch’esse in branchi separati assieme ai maschi più giovani, muovono alla ricerca di luoghi sicuri, dove trascorrere i primi tempi della gestazione.
L’area naturale dei cervidi comprende tutta l’Europa, dal Mediterraneo alla Lapponia, praticamente tutta l’Asia, dall’Indonesia alla Siberia, l’America meridionale e settentrionale. In Africa, invece, l’areale originario dei cervidi è limitato a una striscia a nord del Sahara.
In Italia è individuabile un grande areale alpino che si estende da Cuneo a Udine, senza soluzione di continuità; nell’Appennino il cervo occupa quattro aree distinte: la prima corrisponde a gran parte del territorio montano delle province di Pistoia, Prato, Firenze e Bologna; la seconda all’Appennino tosco-romagnolo, dal Mugello orientale alla Val Tiberina; la terza è rappresentata dal Parco Nazionale d’Abruzzo e dai territori limitrofi; la quarta dal massiccio montuoso della Maiella. Nell’Appennino meridionale sono presenti nuclei disgiunti di piccole dimensioni. Tutte le popolazioni appenniniche si sono originate da reintroduzioni effettuate negli ultimi decenni. In particolare, ci sono state due reintroduzioni, ognuna di 35 esemplari, nel 2004, nel Parco Nazionale del Pollino, e nel 2003, nel Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano.

Presenza del Cervus elaphus in Italia fino al 2005 (Banca Dati Ungulati, Rapporto ISPRA 2001-2005).

Presenza del Cervus elaphus in Italia fino al 2005 (Banca Dati Ungulati, Rapporto ISPRA 2001-2005).

I cervi sono sottoposti a continue spinte selettive, dal momento che i predatori eliminano, solitamente, tutti gli esemplari più deboli e malati, contribuendo quindi al miglioramento continuo della specie. Solo gli individui più dotati in velocità hanno la possibilità di riprodursi. I cervi, in realtà, non hanno, oltre all’uomo, dei veri nemici, poiché nessun predatore è in grado di raggiungerli durante la fuga, considerate le loro straordinarie doti velocistiche. Non è difficile immaginare, con queste premesse, il motivo per cui questo nobile esemplare degli ungulati, rappresentativo delle doti aristocratiche, sia diventato simbolo della bellezza e della potenza regale, nonché della selezione che, da sempre, dovrebbe essere elemento fondativo dell’aristocrazia, intesa nel suo significato arcaico, come ‘governo dei migliori’.
In Italia, la popolazione peninsulare del cervo cominciò a diminuire dal XVII secolo a causa della pressione venatoria e dell’espansione degli insediamenti umani a danno dei boschi, fino a quando non ne restò soltanto una piccola popolazione nel Gran Bosco della Mesola, insieme ad altri gruppetti provenienti dalla Svizzera in provincia di Sondrio. In seguito, queste migrazioni da oltreconfine si fecero sempre più consistenti, al punto che oggi la specie si è ristabilita in tutto l’arco alpino centro-orientale ed è soggetta anche a prelievo venatorio autorizzato.

Quando si fa riferimento al ruolo sacro di un animale è necessario distinguere i diversi significati che gli si attribuiscono, anche in relazione alle varianti che siffatto ruolo contempla. Nel caso del cervo, si parla principalmente di due simbologie diverse: una riferibile al principio femminile e una al maschile.
Nella mitologia greca la cerva era consacrata a Era, Dea della vita coniugale e della fedeltà, e cacciata da Artemide, la vergine cacciatrice.

Statua di Diana con un cervo. Copia romana di originale ellenico. Parigi, Museo del Louvre.

Statua di Diana con un cervo. Copia romana di originale ellenico. Parigi, Museo del Louvre.

La cerva dalle corna d’oro, di cui parla Pindaro nelle Olimpiche, era un animale sacro ad Artemide: la Dea ne aveva quattro attaccate alla sua quadriga. La terza fatica di Eracle fu la cattura della cerva Cerinea.

Nell’iconografia si ricorda anche la raffigurazione di Diana efesina, o Diana dai molti seni, spesso rappresentata con due cervi, come nella Madre Natura di Villa d’Este a Tivoli, realizzata da Giglio della Vellita. Un esempio di riproduzione di epoca romana di Diana efesina è presente nella collezione Farnese, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Nel simbolismo turco e mongolo, la cerva rappresenta la Terra nelle nozze sacre tra Terra e Cielo. Infatti, secondo la leggenda mongola, Gengis Khan nacque dall’accoppiamento della cerva fulva e del lupo azzurro.

Tornando alla mitologia greca, la cerva dalle corna d’oro e dai piedi di bronzo, che per un anno fu inseguita da Eracle fin nelle regioni iperboree, era consacrata ad Artemide, ed Eracle aveva il compito di catturarla viva. Con una freccia tra osso e tendine, senza versare una sola goccia di sangue, l’eroe riuscì a immobilizzarne le zampe anteriori e a portarla a Micene, l’antica città le cui roccaforti erano simbolo di sicurezza inespugnabile. Virgilio nell’Eneide (VI, 802) scrive: «Ha trafitto la cerva dai piedi di bronzo.» Se si considera il suo carattere selvatico, la lunga fuga della cerva dai piedi di bronzo, che Eracle vuole catturare viva al termine dell’inseguimento verso il nord, fin presso i saggi Iperborei, si può interpretare come simbolo della saggezza, il cui raggiungimento è oltremodo arduo. Va considerato che la femmina di Cervus elaphus non possiede corna, tanto che Plinio riporta: «Tenuiora feminis plerumque sunt, ut in pecore multis, ovium nulla nec cervorum» (In genere [le corna] sono più piccole nelle femmine, come si vede in molte specie di bestiame, pecore e cerve ne sono prive) (Plinio, XI, 45). Per questo motivo si può considerare la cerva cornuta come un essere magico dalle proprietà straordinarie o sovrannaturali.

Joachim von Sandrart I (1606-1688), Diana efesina nella Teutsche Academie

L’immaginario della cerva appare in molteplici forme nella letteratura e nell’arte medioevale, dal ciclo bretone e graalico, dove per tre secoli il cervo, o la cerva, compaiono come segni di Cristo o della Chiesa, alle tradizioni di sant’Eustachio e di sant’Uberto, fino a collegarsi alle ultime tracce della mitologia di Diana alla reggia di Venaria, ma soprattutto fino alla simbologia dell’alchimia, in cui il cervo appare come segno del Mercurio sfuggente. Da quel che scrive Pausania (7, 18, 11), a Patrasso, in Acaia, alla vigilia della festa in onore di Artemide, aveva luogo un magnifico corteo, che era chiuso da una giovane sacerdotessa su un carro trainato da cervi. (Otto, 1933)
Il cerbiatto, invece, trova posto nella mitologia che si riferisce a Dioniso: la ‘nebride’ (dal gr. νεβρίς, o ‘pelle di cerbiatto’) è uno degli attributi di Dioniso e dei suoi seguaci: satiri, sileni e menadi. L’attributo della nebride è una conferma del carattere primordiale del culto dionisiaco. Anche i monti Nebrodi presero il nome dal dio Dioniso. Si può dire che il cerbiatto fosse l’animale totemico di Dioniso: il Dio, secondo i seguaci del suo culto, moriva e rinasceva perennemente nel corpo di un cerbiatto. Questa rinascita del Dio è un chiaro riferimento all’iniziazione. La pelle del cerbiatto sacrificato non smise di coprire, successivamente, il simulacro del Dio, e fu indossata dai sacerdoti e dai seguaci iniziati, come una veste sacra nei riti. Le sacerdotesse di Dioniso, chiamate menadi o baccanti, durante le cerimonie sacre, dopo aver danzato sempre più freneticamente, correndo per monti e valli, al culmine dell’esaltazione, sbranavano le carni crude e sanguinanti, credendo di entrare così, per teofagia, in comunione con il loro dio (Damiano, 1992).
All’apparizione di una cerva bianca bellissima, ancella di Diana e numen loci, è legata anche la fondazione di Capua. Quando quest’ultima fu assediata dai Romani (211 a.C.), una cerva bianca fuggì spaventata nel campo nemico, ma qui fu catturata e sacrificata a Latona. Nella leggenda si cela un evidente rito di evocatio, in virtù del quale i Romani cooptavano nel loro pantheon una divinità tutelare della città vinta. A Capua è presente, infatti, il santuario di Diana Tifatina, alle pendici del monte Tifata.

Eracle e la cerva di Cerinea (540-530 a.C. – anfora ritrovata a Vulci).

Eracle e la cerva di Cerinea (540-530 a.C. – anfora ritrovata a Vulci – foto di Jastrow da Wikipedia).


 
Il carattere iniziatico e alchemico della cerva e del cerbiatto sono richiamati, poi, da un sonetto di Petrarca, il CXC del Rerum vulgarium fragmenta, dal titolo Una candida cerva sopra l’erba. Il luogo di apparizione della cerva bianca «con duo corna d’oro» è un ‘non luogo’, cosmico e intermedio. Tutto, nel sonetto, rimanda ad un’idea di freschezza, di una natura colta in un percorso di maturazione e di trasformazione appena iniziato. Il narratore accenna, poi, a una volontà di seguire una cerva che non si muove, ma è stabile nella centralità della sua visione. Questo quadro rimanda con precisione a un cammino iniziatico verso un centro, che è appunto la «candida cerva». Infine, la caduta del poeta nell’acqua si ricollega alla rinascita, al battesimo e al passaggio a una forma di vita nuova, secondo il rito iniziatico. Il sonetto può essere inteso, infatti, come un passaggio alchemico attraverso fasi di crisi e rinascita, attraverso elementi di luce e acqua.

Una candida cerva sopra l’erba
verde m’apparve, con duo corna d’oro,
fra due riviere, all’ombra d’un alloro,
levando ’l sole a la stagione acerba.

Era sua vista sí dolce superba,
ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro:
come l’avaro che ’n cercar tesoro
con diletto l’affanno disacerba.
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta CXC.

Il rinnovamento e la rinascita sono certamente testimoniati, in questa specie, dal fenomeno della caduta dei palchi, connessi alla virilità e all’affermazione del principio regale collegato alla simbologia delle corna.

Maschio adulto con i palchi ricoperti di velluto (27 aprile 2016) (foto di Santucci, 2016).

Maschio adulto con i palchi ricoperti di velluto (27 aprile 2016) (foto di Santucci, 2016).

I palchi, strutture analoghe ma non omologhe alle corna dei Bovidi, rappresentano la principale caratteristica dei maschi. Essi sono uno dei fenomeni biologici più interessanti: si tratta di escrescenze ossee, le quali sono perdute annualmente per poi riformarsi nel giro di pochi mesi. Alla fine del primo inverno, sullo stelo, cresciuto nella regione frontale, compaiono i primi palchi, nutriti da uno strato di pelle riccamente vascolarizzata, detta velluto; in luglio essa raggiunge il suo massimo sviluppo, ossificandosi. Costituiscono l’unico esempio di osso nudo, poiché, dopo essersi formate, perdono il loro rivestimento cutaneo, comprensivo di epidermide e derma. Al secondo anno di vita, il giovane cervo, contemporaneamente a una diminuzione dei livelli di testosterone nel sangue, subisce la decalcificazione della base dei primi palchi, che, al minimo urto, si staccano, solitamente lungo la linea di distacco, e cadono.

Il fenomeno si ripete con regolarità ogni anno: i palchi cadono, ma sullo stelo se ne formano di nuovi, che raggiungono le dimensioni massime entro quattro mesi, sempre rivestiti di velluto. Anno dopo anno, il volume, il peso e il numero delle punte aumentano. La credenza popolare che sostiene che si possa capire l’età di un maschio contando il numero delle punte e considerando un anno per ogni punta non sempre si dimostra corretta (ma in moltissimi casi è così) e per una stima più accurata dell’età di un cervide si deve osservare la dentatura.

Diversa conformazione dei palchi a seconda dall’età del cervo.

Diversa conformazione dei palchi a seconda dall’età del cervo.


 
Sembra che il cervo, nell’arte delle caverne abitate nell’era glaciale, facesse parte, spesso insieme al toro, di un sistema dualistico mitico-cosmologico. A causa dei suoi palchi di corna simili ad alberi, che si rinnovano periodicamente, il cervo era visto come simbolo della vita che si ripete e si conferma continuamente, della rinascita e del corso del tempo. Fra i simboli alchemici il cervo è in rapporto con l’antico mito del cacciatore Atteone, che fu trasformato in cervo dalla Dea Diana (Artemide tra le divinità greche); il mito si ricollega alla possibile trasformazione dei metalli a contatto con il principio femminile e lunare dell’argento, in alchimia.

Scultura di Atteone e i suoi cani nella Reggia di Caserta.

Scultura di Atteone e i suoi cani nella Reggia di Caserta.


 
Nelle antiche popolazioni italiche, il cervo aveva, con ogni probabilità, anche funzione totemica, in quanto, secondo lo storico Salmon (1995), avrebbe guidato le migrazioni avvenute, durante il rito del Ver Sacrum, di alcune popolazioni che si stabilirono nell’attuale Molise. La prova deriverebbe, secondo lo storico Rix (1955), dall’etimologia del nome dei Frentani, che verrebbe, a sua volta, dalla parola illirica che significa ‘cervo’. È bene tenere a mente che Salmon giudica poco probabile questa ipotesi, ma esamina un’altra evidenza: nelle popolazioni sabelliche esisteva infatti il gentilicium osco Cervidius – a cui abbiamo accennato in precedenza – che fa certamente supporre che il cervo fosse, per loro, un animale guida.

L’iconografia cristiana si fonda principalmente sul Salmo 42 di Davide: «Come il cervo anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio.» Nel mondo mitologico celtico i cervi erano considerati ‘i tori delle fate’ e gli intermediari fra il mondo degli Dei e quello degli uomini.
Il Dio celtico Cernunnos era rappresentato con le corna di cervo. Nelle arti figurative del Medioevo cristiano, in particolare nelle sculture, il cervo era a volte rappresentato nell’atto di piluccare dell’uva, come l’uomo che già sulla terra può godere dei beni divini. Il tendere del cervo verso le sorgenti ha il significato di desiderare l’acqua battesimale che purifica e, per questo motivo, i cervi sono spesso ritratti sui bassorilievi di fonti battesimali.
Ma un altro significato ancora hanno i palchi dei cervi, e questo va ricercato nel significato della simbologia delle corna che si ricollega, nell’etimologia, alla radice KRN, comune, in greco, a Kronos, Karneios – epiteto di Apollo, a sua volta derivato dalla divinità dorica Carneio – e, infine, alla parola greca Keraunos, che designa il fulmine. Alla stessa radice si ricollega il termine ‘corona’, espressione simbolica delle stesse idee, e le due parole, che anche in latino sono assai vicine (cornu e corona), hanno la medesima provenienza. La corona è simbolo del potere e segno del rango più elevato, quindi le corna, come la corona, attribuiscono carattere regale a chi le porta. Inoltre, originariamente, la corona era un cerchio ornato di punte a forma di raggi, che sono innegabilmente attributi di potenza, sia essa spirituale o temporale, designata come emanazione di luce, ove tale potenza sacerdotale o regale, cioè spirituale o temporale, sia legittima. Si trovano esempi delle corna come simbolo di potenza nella Bibbia, in modo speciale nell’Apocalisse, e nella tradizione araba, che definisce Alessandro con il nome di El-Iskandardhûl-qarnein, cioè ‘dalle due corna’ (Guénon, 1936). È interessante notare che, come già sottolineato, le corna possono essere anche associate a simboli femminili (la cerva con le corna d’oro di Virgilio, la cerva bianca del Petrarca), quasi come se si volesse unire e sintetizzare, in un unico simbolo, un principio femminile – fugace e irrequieto -, con uno maschile – potente e regale.

Spesso, nel simbolismo connesso agli animali e alle potenze naturali, si trova questo dualismo, che può inizialmente apparire come un’opposizione tra due forze contrastanti, ma è bene ricordare che i simboli dovrebbero essere pensati come entità unitarie, che, in essi, concentrano tutte le diverse letture e i diversi significati. L’opposizione tra maschile e femminile è, pertanto, solo apparente e i due aspetti sono due interpretazioni di uno stesso simbolo. Le due anime, quella fugace, femminile e irrequieta e quella maschile, stabile e potente, si uniscono per creare l’Armonia e, unendosi, generano un’entità in perfetto equilibrio, in cui l’immobilità e la stabilità generano il movimento, così come il motore immobile è la causa ultima del divenire nell’Universo. Da ciò si desume che il maschile e il femminile non sono divisibili ma legati indissolubilmente l’uno all’altra. Anche Platone, nella Politeia, afferma che audacia e temperanza sono le due virtù fondamentali, ugualmente necessarie al re per governare lo Stato secondo giustizia. In una visione arcaica, la regalità, quindi la stabilità, è connessa alla sapienza sacra e alla saggezza che deriva dalla conoscenza delle leggi divine, della giustizia e delle dinamiche dei cicli naturali. Il potere regale, quindi, non è scisso da quello sacro. Il cervo è, per questo motivo, un potente simbolo riunificatore, che dà risalto a due aspetti necessari della nobiltà: la conoscenza sacra e la regalità, due virtù che i governanti dovrebbero sempre possedere. Il regno animale insegna che, per essere i migliori, quindi per essere adatti a governare e a decidere il destino dei popoli, non ci si può sottrarre a questa legge, pena l’indebolimento della specie, o, nel caso dell’uomo, la fine di un’intera cultura. Tutto si rinnova ciclicamente, ma ogni cosa è sempre e comunque destinata a mutare. La capacità di imprimere una direzione al mutamento naturale, restando fedeli ai propri valori e alle proprie idee, appartiene soltanto agli spiriti nobili. Questa è la capacità che i governanti, in un tempo futuro, prossimo o remoto, dovrebbero tornare ad avere per ripristinare una superiore Armonia tra i vari gruppi umani e tra questi e gli elementi naturali.

 

Bibliografia

  • Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Milano, Garzanti Editore, 1991.
  • Antonino Damiano, Nebrodi Val Demone Agatirno: misteri della storia antica, Capo d’Orlando (ME), Eikon editrice, 1992.
  • René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Milano, Adelphi Edizioni, 1975, (prima edizione Editions Gallimard, Paris, 1962).
  • Walter Friedrich Otto, Dioniso, trad. it. di Albina Ferretti Calenda, Genova, Il melangolo, 2006.
  • Edward Togo Salmon , Il Sannio e i Sanniti, Torino, Einaudi, 1995.

 

Immagini

  • in testata: Silhouette di cervo. Foto da 7 Themes.com (http://7-themes.com/data_images/out/40/6907882-deer-silhouette.jpg)
  • in evidenza: Cervus elaphus Linnaeus, 1758. Foto da 7 Themes.com (http://7-themes.com/data_images/out/62/6982217-deers-autumn.jpg)