Audacia e fierezza in combattimento: il cinghiale

Il cinghiale (Sus scrofa Linnaeus, 1758) è un mammifero artiodattilo della famiglia dei suidi, considerato un’ambìta preda per la sua carne, ma contemporaneamente un fiero avversario per la sua fermezza in combattimento. Per questo strettissimo legame con l’uomo, il cinghiale ricoprì spesso ruoli da protagonista nella mitologia di numerose popolazioni, cessando, recentemente, di essere una fonte di cibo di primaria importanza per l’uomo, soppiantato dal suo discendente domestico, il maiale.

Gli esemplari adulti misurano fino a 180 cm di lunghezza, per un’altezza al garrese che può sfiorare il metro e un peso massimo di un quintale circa (de la Fuente, 1983). Sussistono tuttavia grandi variazioni di dimensioni e peso a seconda delle sottospecie, con tendenza all’aumento muovendosi da Sud-Ovest a Nord-Est: gli esemplari spagnoli di cinghiale, infatti, raramente superano gli 80 kg di peso, mentre in Russia si ha notizia di esemplari di peso superiore ai 300 kg. Ad ogni modo, i maschi hanno dimensioni e peso maggiori rispetto alle femmine.
Nelle Alpi italiane il peso oscilla tra i 100 ed i 200 kg: nel Centro e Sud Italia e in Sardegna, invece, il peso medio è sugli 80÷90 kg, con esemplari che possono raggiungere 150 kg, come il cinghiale sardo.

Sus scrofa Linnaeus, 1758 (foto di 4028mdk09, wikipedia)

Sus scrofa Linnaeus, 1758 (foto di 4028mdk09, wikipedia).

La caratteristica del cinghiale sono i canini, trasformati in zanne: si tratta di denti a crescita continua, presenti in ambedue i sessi, ma che tuttavia solo nel maschio hanno dimensioni tali da protrudere al di fuori della bocca, inarcandosi verso l’alto. I canini inferiori sono detti difese e sono più grandi di quelli superiori, denominati coti: profondamente conficcati nella mandibola, essi possono raggiungere (nel cinghiale maschio) anche i 30 cm di lunghezza, mentre sono consuete lunghezze comprese fra i 15 e i 20 cm. In ogni caso, zanne eccessivamente lunghe risultano svantaggiose per l’animale, in quanto incurvandosi all’indietro divengono inutili come arma d’offesa. Le zanne cominciano a spuntare a partire dal secondo anno d’età, e, nel giro di un anno, quelle inferiori divengono più lunghe di quelle superiori. Le zanne hanno per il cinghiale una duplice funzione: vengono utilizzate sia come strumenti da lavoro, ad esempio per facilitare l’attività di scavo nel terreno, che come strumenti di offesa, per difendersi dai predatori o per competere con gli altri esemplari durante il periodo degli accoppiamenti.

Il cinghiale euroasiatico è uno dei mammiferi terrestri con la maggior distribuzione geografica. Il suo areale originale si estende dalla Spagna al Giappone, e include anche il Nord-Africa. Attualmente, in seguito a introduzioni operate in passato spesso a scopi venatori, questa specie si ritrova in tutti i continenti tranne l’Antartide. Alla stessa specie del cinghiale appartiene il maiale domestico, di cui è il progenitore selvatico e con il quale si può ibridare producendo prole fertile. L’interesse per il cinghiale non è soltanto inerente alla conservazione o di tipo venatorio, ma anche economico. Il patrimonio genetico di questa specie si può infatti considerare come un serbatoio di variabilità genetica disponibile anche per le forme domestiche.
Contrariamente ad altri ungulati, il cinghiale ha un elevato potenziale riproduttivo, e si adatta anche a condizioni ecologiche molto differenziate. Ciò nonostante, la caccia indiscriminata e i cambiamenti del territorio indotti dall’uomo negli ultimi secoli avevano provocato la sua estinzione in molte regioni europee, come ad esempio l’Inghilterra, la Scandinavia, e molte aree della Russia Occidentale. Anche in Italia la numerosità e la distribuzione del cinghiale hanno subìto una grande riduzione in passato. Una volta presente in tutta la penisola, all’inizio del ventesimo secolo le uniche aree dove era ancora esistente erano la Sardegna e, in maniera molto discontinua e irregolare, in Centro-Italia. Benché nel cinghiale come in quasi tutte le specie il riconoscimento di sottospecie sia molto difficile, in Sardegna e in Centro-Italia furono identificate due sottospecie endemiche: rispettivamente Sus scrofa meridionalis e Sus scrofa majori. Successivamente, ma soprattutto a partire dagli anni ’50, in Italia come nel resto d’Europa si assistette a una significativa ripresa demografica. Le cause di questo fenomeno, che adesso è divenuto un vero problema per i danni arrecati dalla specie alle colture e per il disturbo ecologico che sta provocando, sono state molte. Oltre a una naturale ricolonizzazione da aree adiacenti, ad esempio dalla Francia, hanno, con ogni probabilità, contribuito il cambiamento climatico, la modificazione delle pratiche agricole, la collocazione di siti artificiali di foraggiamento e la riduzione del numero di predatori. Secondo molti studiosi, però, un contributo determinante alla espansione demografica del cinghiale in Italia è stato dato dalle reintroduzioni. Infatti, in molte aree, animali di origine autoctona ma anche alloctona, provenienti soprattutto dal’Europa centro-orientale (Ungheria, Polonia, ecc.) furono utilizzati per pratiche di ripopolamento. Da un punto di vista della conservazione della specie, quindi, è necessario capire se in Italia esistano ancora delle popolazioni relitte di cinghiale, riconducibili cioè a gruppi (o sottospecie) distinte dagli altri animali presenti in Europa. Oppure se tali popolazioni, presenti in passato, siano ormai scomparse, geneticamente diluite durante l’ibridazione subìta dai loro antenati con animali alloctoni (Frankham et al., 2006).

I cinghiali sono animali dalle abitudini crepuscolari e notturne: durante il giorno preferiscono riposare distesi in buche nel terreno che scavano col muso e gli zoccoli fra i cespugli, per poi ingrandirle con l’usura. Durante l’inverno, essi hanno l’abitudine di imbottire le loro buche con frasche e foglie secche.
Sono certamente animali sociali, che vivono in gruppi composti da una ventina di femmine adulte e dai loro cuccioli, guidate dalla scrofa più anziana: in alcune zone particolarmente ricche di cibo, tuttavia, si trovano gruppi che includono anche più di 50 animali, spesso risultato della fusione di più gruppi.

Tracce del passaggio di cinghiali, probabilmente ibridi tra popolazioni autoctone e cinghiali provenienti dal Nord Europa; presso l’Oasi WWF Lago di Conza (Av).

Tracce del passaggio di cinghiali, probabilmente ibridi tra popolazioni autoctone e cinghiali provenienti dal Nord Europa; presso l’Oasi WWF Lago di Conza (Av).

I maschi più anziani conducono una vita solitaria per la maggior parte dell’anno, mentre i giovani maschi che ancora non si sono accoppiati tendono a riunirsi in piccoli gruppi. Il territorio appartenente a ciascun gruppo viene delimitato tramite secrezioni odorose della zona labiale ed anale: i territori dei maschi sono solitamente più grandi di quelli delle femmine.
I vari esemplari comunicano fra loro attraverso una vasta gamma di suoni, che comprendono una serie di grugniti a varie frequenze, grida e ruggiti che possono avere la funzione di comunicare la propria appartenenza ad un gruppo o la disponibilità all’accoppiamento o al combattimento.
I cinghiali sono noti per l’indole aggressiva: se presi alla sprovvista, anche se feriti, attaccano, combattendo strenuamente in modo tale da rappresentare un pericolo per le vittime di tali attacchi.
Gli attacchi dei cinghiali, sebbene raramente mortali per predatori come l’uomo o l’orso, possono lasciare ricordi indelebili nell’aggressore, come cicatrici e mutilazioni.
Si tratta di animali che hanno molta cura della loro igiene: l’abitudine di rotolarsi nel fango, definita ‘insoglio’, è la prima azione che l’animale compie dopo essersi svegliato e ha la duplice funzione di rinfrescare il corpo nei mesi caldi, proteggendolo da scottature dovute ai raggi solari, e di favorire la cicatrizzazione delle numerose ferite, di entità più o meno grave, che l’animale spesso si procura combattendo o muovendosi nel sottobosco.
Il principale predatore dei cinghiali è l’uomo: in genere è abbastanza raro che un predatore scelga di cacciare questi animali, se dispone di altre specie meno impegnative da cacciare. I cinghiali, infatti, sono animali forti, che non esitano ad attaccare per primi se disturbati.
Tuttavia il lupo si è dimostrato un temibile predatore per il cinghiale: nonostante tendano a nutrirsi dei cuccioli lasciati temporaneamente incustoditi dalle femmine, alcune popolazioni locali di lupo (fra cui quelle italiane) si nutrono abitualmente anche di cinghiali adulti (Mattioli et al., 1992).

Nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio, si comprende che già nel 77-78 d.C. si era a conoscenza di molti elementi inerenti alle abitudini riproduttive dei cinghiali. A testimonianza di ciò si riporta un breve estratto:
«Le femmine del cinghiale partoriscono una volta l’anno. Durante il periodo dell’accoppiamento i maschi sono molto feroci. Allora combattono fra loro e cercano di rendersi duri i fianchi sfregandoli contro gli alberi e ricoprendosi di fango’. Le femmine nel periodo della maternità diventano più feroci e questo avviene in genere per animali di ogni tipo. La riproduzione inizia per i cinghiali maschi solo ad un anno. In India le loro zanne ricurve sono lunghe un cubito; entrambe escono dal muso, e altrettante dalla fronte, come corna di un vitello. Il pelo è di colore simile al bronzo negli esemplari selvaggi, negli altri è nero. In Arabia invece non vive la specie dei suini.
In nessuna specie è tanto facile l’unione con il corrispettivo selvatico, e gli antichi chiamavano i piccoli cosi nati ‘ibridi’ o semiselvatici, appellativo che passò anche agli uomini, ad esempio a Gaio Antonio, collega di Cicerone nel consolato. Non soltanto nei maiali, ma anche in tutti gli altri animali, di qualunque specie esista l’esemplare domestico, di questa si trova anche il corrispondente selvaggio, come esistono tante razze di uomini selvaggi di cui già abbiamo parlato» [Plinio il Vecchio, Naturalis historia, II, 212].
Il simbolismo del cinghiale ha radici antichissime, essendo presente in molte tradizioni indoeuropee e, per certi aspetti, anche al di fuori di esse, a riprova che tutte le tradizioni arcaiche sono, in qualche modo, correlate, pur presentando notevoli differenze nell’àmbito delle diverse culture.
Il mito è nato dalla tradizione iperborea, nel cui àmbito il cinghiale rappresenta l’autorità spirituale, rapportandosi al ritiro solitario del druido o del brahmano nella foresta. Il suo opposto è l’orso, emblema del potere temporale. Poiché in Gallia, come in Grecia, si soleva praticare la caccia al cinghiale, esso divenne l’immagine del potere spirituale abbattuto dal potere temporale.
Nelle varie tradizioni il cinghiale viene sconfitto e ucciso, con un evidente simbolismo di sostituzione di un regno a un altro: in Cina è catturato da Yi l’Arciere; Ercole cattura il cinghiale di Erimanto; Meleagro, con l’ausilio di Teseo e Atalanta, uccide quello di Calidone. Quest’ultimo, mandato sulla terra da Ares come punizione per Adone, trovò la morte nella caccia calidonia, organizzata dal re Oineo di Calidone. Il cinghiale era stato inviato da Artemide a distruggere i campi di Calidone perché Oineo era venuto meno nelle offerte votive succedute all’eccellente raccolto calidonio trascurando la dea. Per liberarsi della belva, il re organizzò una caccia in cui chiese la partecipazione di quasi tutti gli eroi del mito greco: tra gli altri, Castore e Polluce, i Cureti, Ida e Linceo, Admeto e Atalanta (Graves, 1955).
Di questo mito scrisse Omero nel libro IX dell’Iliade:
Ella dunque, stirpe divina, l’Urlatrice, irata, gli mandò contro un feroce cinghiale selvaggio, zanna candida, che prese a conciar male la vigna d’Oineo; molti alberi alti stendeva a terra, rovesci, con le radici e con la gloria dei frutti. L’uccise Melèagro, il figliuolo d’Oineo, chiamando cacciatori da molte città e cani, ché vinto non l’avrebbe con pochi mortali, tant’era enorme, e gettò molti sulle pire odiose [Omero, Iliade, libro IX].

Meleagro e il cinghiale (copia romana in marmo, da un originale greco del IV a.C., Museo Pio-Clementino)

Meleagro e il cinghiale (copia romana in marmo, da un originale greco del IV a.C., Museo Pio-Clementino)

All’episodio dell’uccisione del cinghiale calidonio è legata anche la fondazione della città di Benevento: una leggenda narra che Benevento debba le sue origini all’eroe greco Diomede, sbarcato in Italia dopo la distruzione e l’incendio di Troia, e che avrebbe riservato per la città una zanna del cinghiale calidonio (simbolo di Benevento) ucciso da suo zio Meleagro.
Nell’àmbito della successione ciclica, il nostro ciclo di esistenza è designato, nella mitologia indù, come quello del cinghiale bianco. Il cinghiale (varâha), in questa dottrina, non rappresenta soltanto il terzo dei dieci avatara di Vishnu nel Manvantara attuale, ma il nostro Kalpa intero, cioè tutto il ciclo della manifestazione del nostro mondo, è designato come “Shweta varaha Kalpa”, ovvero “il ciclo del cinghiale bianco” (Guénon, 1962).
Il cinghiale, insomma, è portatore di un carattere iperboreo, cioè primordiale. È la personificazione di Vishnu, allorché riportò la terra alla superficie delle acque e la organizzò.
In Giappone è associato alla temerarietà e al coraggio e lo stesso dio della guerra, Usa-Hachiman, è rappresentato su di un cinghiale.
Figura, inoltre, frequentemente sulle insegne militari galliche, in particolare su quelle dell’Arco di Trionfo d’Orange e sulle monete dell’indipendenza. Quest’animale non ha alcun rapporto con la classe guerriera, anzi, quale simbolo della classe sacerdotale, le si pone in netto contrasto. Il cinghiale è, al pari di un druido, in stretto rapporto con la foresta: si nutre di ghiande di quercia, e la femmina, simbolicamente circondata da cinghialetti, scava la terra ai piedi del melo, simbolo di immortalità.
Nella tradizione celtica, spesso è confuso con il maiale (i Celti avevano branchi di maiali tenuti quasi allo stato selvatico), ma il cinghiale costituisce il cibo dei sacrifici della festa di Samain ed è animale sacro a Lug. Fra i Celti era un importante animale sacro e figure di cinghiale servivano come ornamento per elmi e scudi: la carne di cinghiale veniva posta nella tombe dei morti come viatico per dar loro la forza nel viaggio verso l’aldilà. Sculture in pietra, a Euffigenux, e in bronzo, a Neuvy-en-Sullias, in Francia, testimoniano la grande importanza di questo simbolo animale nell’Antica Europa occidentale. (Biedermann, 1989)
Ancora in riferimento alle tribù celtiche, gli Edui avevano come animale totemico il cinghiale, divenuto poi simbolo della città di Milano; probabilmente gli Edui erano, infatti, tra le popolazioni fondatrici di Milano.
In nessun caso, neanche nei testi irlandesi di ispirazione cristiana, il simbolismo del cinghiale assunse sfumature di malvagità, e in questo esiste, quindi, una profonda contrapposizione tra mondo celtico e tendenze generali del cristianesimo. Si pensi, a tal proposito, a Dürer che pone, nel presepe natalizio, il cinghiale e il leone al posto del bue e dell’asino.

Emblema della legione X Fretensis (dalla foto di Yoav Dothan, wikipedia).

Emblema della legione X Fretensis (Foto di Yoav Dothan, Wikipedia).

Nella mitologia norrena, il cinghiale era associato alla fertilità, e si può trovare spesso nell’iconografia del dio-cinghiale (Gullinbursti) insieme al dio norreno Freyr. Freyr venne poi associato, nella cristianità, a San Nicodemo da Cirò e a Sant’Antonio Abate, che, infatti, spesso è ritratto con un maiale o un cinghiale.

In generale, nelle tradizioni antiche, questo animale aggressivo che spunta impetuosamente dal sottobosco è simbolo delle intrepide schiere di guerrieri. Si ricorda anche un cinghiale come simbolo della Legio X Fretensis (dello Stretto) legione romana creata da Augusto nel 41-40 a.C. e celebre per la sua azione militare nella prima guerra giudaica (66–73 d.C.) sotto il comando supremo del futuro imperatore Vespasiano. Nel 66 questa legione si recò insieme alla V Macedonica ad Alessandria per un’invasione dell’Etiopia, pianificata da Nerone, ma, contrariamente a quanto progettato, esse furono impiegate nella soppressione della rivolta giudaica (Grimal, 1987).

Il cinghiale fu simbolo anche della Legio XX Valeria Victrix , arruolata da Augusto (dopo il 31 a.C.). Questa legione romana prestò servizio in Spagna, in Illyricum e in Germania, prima di partecipare all’invasione della Britannia nel 43; fu attiva almeno fino all’inizio del IV secolo.

Antefissa Romana raffigurante l'insegna della Legio XX Valeria Victrix.

Antefissa Romana raffigurante l’insegna della Legio XX Valeria Victrix.

Per quel che riguarda strettamente le popolazioni italiche, in particolare che si stabilirono nel Sannio, i Caudini avevano come animale totemico, nella ‘primavera sacra’, il cinghiale (Salmon, 1995). I Caudini erano una delle quattro tribù che costituivano il popolo dei Sanniti e che facevano parte della confederazione che andava sotto il nome di Lega sannitica. Fu la tribù che maggiormente risentì dell’influenza ellenica.

Vivevano ai confini della pianura campana (Monte Taburno e Monti Trebulani) nella valle dell’Isclero e lungo il fiume Volturno. I loro centri principali erano Caudium, Saticula e Telesia, ma città caudine erano anche quelle situate ad ovest del Volturno: Caiatia, Cubulteria e Trebula Balliensis (Tagliamonte, 1997).

Impavido tra gli animali, dotato di virtù guerriere per natura, il cinghiale è il simbolo del coraggio, dell’indomita capacità che accomuna uomini e animali di difendersi e, come i più nobili tra i guerrieri, di esprimere la propria volontà di sopravvivenza. Questo simbolo rappresenta una nobile e sacra visione del mondo costantemente legata al dominio spirituale e non esclusivamente suggerita da bisogni materiali. L’augurio è quello di essere guidati, in questo momento storico di profonda crisi spirituale, dalla sua forza e dal suo coraggio, per affermare finalmente la nostra volontà di preservare e tramandare i culti e le tradizioni che hanno, nei millenni, definito la fisionomia dei nostri popoli.

Bibliografia

  • Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Milano, Garzanti Editore, 1991.
  • Richard Frankham, Jonathan D. Ballou, David A. Briscoe, Fondamenti di Genetica della conservazione, Bologna, Zanichelli, 2006.
  • Félix Rodríguez de la Fuente, Il cinghiale, Segrate (MI), Giorgio Mondadori e Associati, 1983 («I taccuini di Airone», 3).
  • Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1955.
  • Pierre Grimal, Dizionario di mitologia greca e romana, Flero (BS), Paideia, 1987.
  • René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Milano, Adelphi Edizioni, 1975 [prima ed., 1962].
  • Luca Mattioli, Federico Striglioni, Ettore Centofanti, Vito Mazzarone, Nicola Siemoni, Sandro Lovari, Guido Crudele, Alimentazione del lupo nelle Foreste Casentinesi: relazioni con le popolazioni di ungulati domestici e selvatici, in Atti del Convegno sul lupo, Parma, WWF, 1992.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
  • Gianluca Tagliamonte, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carricini, Frentani, Milano, Longanesi, 1997.

 

Immagini

  • in testata: Scena di caccia al cinghiale (sarcofago di Altıkulaç, IV sec. a.C. – Çanakkale, Turchia – part. da una foto di Dan Diffendale)
  • in evidenza: Caccia al cinghiale (Jan van der Straet, Venationes ferarum, avium, piscium, pugnae bestiariorum et mutuae bestiarum […], Anversa, Philippe Galle, 1602).



Regalità e rinnovamento ciclico: il cervo

Nel simbolismo del cervo sono presenti numerose interpretazioni; alcune di esse si collegano all’espressione della regalità, altre al rinnovamento ciclico della vita, alla rinascita e, spesso, anche all’iniziazione. Le interpretazioni riferibili alla regalità e all’iniziazione non sono necessariamente collegate tra loro, ma rispecchiano entrambe delle precise caratteristiche della specie, così come dovevano essere percepite e comprese dagli uomini che, in età antica, vedevano nei fenomeni naturali una manifestazione di virtù divine da assumere come esempio nella propria esistenza.
Cervus elaphus, chiamato anche cervo nobile, è un mammifero appartenente all’ordine degli artiodattili e alla famiglia dei cervidi. I cervi possono essere descritti come gli ultimi grandi ruminanti selvaggi delle regioni temperate. Ne esistono 43 specie ripartite in 17 generi.
La specie Cervus elaphus presenta una colorazione marrone, tendente al rosso in estate, e questa caratteristica specifica è all’origine dell’attribuzione del nome alternativo di ‘cervo rosso’.

Il mantello, che si presenta liscio, è formato da peli setosi e da fine lanugine e subisce alterazioni che seguono il ciclo delle stagioni, ma che dipendono anche del sesso e dell’età degli individui: il mantello estivo è brunastro o tendente al rossiccio, mentre in inverno è grigio-bruno, con un pelo notevolmente più fitto.

Nelle pitture rupestri risalenti al Paleolitico si trovano numerose raffigurazioni di questi animali, solitamente in veste di preda di caccia o come entità spirituali.

Rappresentazione rupestre di cervide del Paleolitico (grotte di Lascaux, Francia).

Rappresentazione rupestre di cervide del Paleolitico (grotte di Lascaux, Francia).


 
Numerose anche le testimonianze nella toponomastica. In Campania esistono due paesi che, nell’origine etimologica del loro nome, richiamano l’immagine del cervo: Cervino, in provincia di Caserta e Cervinara in provincia di Avellino. A Cervino, tra l’altro, nella frazione di Carmiano, sono conservate le rovine di un antico tempio dedicato a Diana. Più incerta è l’etimologia di Cervinara, che potrebbe derivare sia da ara Cereris che da ara cervis. Gli stemmi comunali di entrambi i paesi riportano l’immagine di un cervo.
Esistono, inoltre, elementi residuali dell’arcaica funzione iniziatica e sacra del cervo nelle manifestazioni folkloristiche molisane: in particolare, a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta al Volturno (provincia di Isernia), ogni anno, in occasione dell’ultima domenica di Carnevale, si tiene una manifestazione in cui è presente un Uomo-Cervo, il quale, durante una rappresentazione rituale, è ucciso da un cacciatore. Gli abitanti del luogo spiegano questo rito ipotizzando che il cervo rappresenti la forza distruttrice della natura, che può improvvisamente scatenarsi e contro cui l’uomo deve combattere. Più probabile potrebbe essere la presenza, in questi paesi, di residui di riti pagani o di ricordi risalenti alle popolazioni italiche e al ruolo totemico del cervo, testimoniato dal gentilicium Cervidius risalente all’epoca in cui, in queste aree, si parlava la lingua osco-sannitica.

Il cervo è una specie associata principalmente agli ambienti boschivi aperti, alternati a distese di prateria in regioni pianeggianti o a debole rilievo; solo secondariamente è stato sospinto nelle zone di foresta densa o in montagna, dalla pressione esercitata dall’uomo. Attualmente frequenta una vasta gamma di ambienti, dalle brughiere scozzesi alle foreste mesofile dell’Europa centrale, alla macchia mediterranea, che caratterizza la parte più meridionale del suo areale.

Il cervo nobile deve il suo nome al portamento regale: con il collo eretto e la camminata elegante, si muove leggero e aggraziato nei boschi fitti, nelle praterie a diverse altitudini; è maestoso, forte e veloce nel trotto e nel galoppo. È stato verificato che, in piena corsa, può raggiungere e superare i 60 km/h; agile e abile nel salto: talvolta, può raggiungere in altezza anche i 2 m e più del doppio in lunghezza.

All’inizio dell’autunno, precisamente da metà settembre a metà ottobre, inizia la stagione degli amori e, in questo periodo, i maschi, che vivono in piccoli gruppi monosessuali, si separano e incominciano a sfidarsi con i bramiti per reclamare il possesso delle femmine su altri maschi pretendenti. Risulterà vittorioso chi riuscirà a intimorire, con il suo verso, gli altri cervi. La forza e la potenza del bramito dipendono dalla stazza dell’animale e dalle sue condizioni di salute. Il bramito è, quindi, indicativo della potenza e della salute dell’animale di sesso maschile. In inverno i palchi vengono persi e i maschi si ritirano nella fitta boscaglia allontanandosi dalle femmine.

La nutrizione negli abbondanti pascoli primaverili rafforza l’organismo dei maschi, che diventano vigorosi e si apprestano ad affrontare il cammino per la lunga ricerca delle compagne. Durante questo periodo, essi abbandonano le loro consuete abitudini e i luoghi prima frequentati, rivelandosi inquieti e irascibili. Il cervo, quindi, raduna intorno a sé da 5 a 15 femmine, che custodisce gelosamente, proteggendole dai rivali. Tuttavia, le lotte tra i maschi sono rare: infatti, prima di passare alle armi i contendenti si sfidano con il potente bramito, che è un suono profondo e cupo, una via di mezzo fra un muggito bovino e un ruggito, e che serve ai rivali per capire chi hanno di fronte: solo quando le capacità vocali si equivalgono i maschi si affrontano in campo aperto, ma anche a questo punto, prima di combattere, mettono in atto una serie di comportamenti rituali, come marciare avanti e indietro lungo linee parallele per esaminare le dimensioni delle corna e la potenza fisica dell’avversario. Il periodo migliore per ascoltare i bramiti dei cervi è settembre-ottobre.
Una volta trascorsi questi giorni, i maschi riformano i branchi, riprendendo le loro consuetudini, mentre le femmine, riunite anch’esse in branchi separati assieme ai maschi più giovani, muovono alla ricerca di luoghi sicuri, dove trascorrere i primi tempi della gestazione.
L’area naturale dei cervidi comprende tutta l’Europa, dal Mediterraneo alla Lapponia, praticamente tutta l’Asia, dall’Indonesia alla Siberia, l’America meridionale e settentrionale. In Africa, invece, l’areale originario dei cervidi è limitato a una striscia a nord del Sahara.
In Italia è individuabile un grande areale alpino che si estende da Cuneo a Udine, senza soluzione di continuità; nell’Appennino il cervo occupa quattro aree distinte: la prima corrisponde a gran parte del territorio montano delle province di Pistoia, Prato, Firenze e Bologna; la seconda all’Appennino tosco-romagnolo, dal Mugello orientale alla Val Tiberina; la terza è rappresentata dal Parco Nazionale d’Abruzzo e dai territori limitrofi; la quarta dal massiccio montuoso della Maiella. Nell’Appennino meridionale sono presenti nuclei disgiunti di piccole dimensioni. Tutte le popolazioni appenniniche si sono originate da reintroduzioni effettuate negli ultimi decenni. In particolare, ci sono state due reintroduzioni, ognuna di 35 esemplari, nel 2004, nel Parco Nazionale del Pollino, e nel 2003, nel Parco Nazionale del Cilento – Vallo di Diano.

Presenza del Cervus elaphus in Italia fino al 2005 (Banca Dati Ungulati, Rapporto ISPRA 2001-2005).

Presenza del Cervus elaphus in Italia fino al 2005 (Banca Dati Ungulati, Rapporto ISPRA 2001-2005).

I cervi sono sottoposti a continue spinte selettive, dal momento che i predatori eliminano, solitamente, tutti gli esemplari più deboli e malati, contribuendo quindi al miglioramento continuo della specie. Solo gli individui più dotati in velocità hanno la possibilità di riprodursi. I cervi, in realtà, non hanno, oltre all’uomo, dei veri nemici, poiché nessun predatore è in grado di raggiungerli durante la fuga, considerate le loro straordinarie doti velocistiche. Non è difficile immaginare, con queste premesse, il motivo per cui questo nobile esemplare degli ungulati, rappresentativo delle doti aristocratiche, sia diventato simbolo della bellezza e della potenza regale, nonché della selezione che, da sempre, dovrebbe essere elemento fondativo dell’aristocrazia, intesa nel suo significato arcaico, come ‘governo dei migliori’.
In Italia, la popolazione peninsulare del cervo cominciò a diminuire dal XVII secolo a causa della pressione venatoria e dell’espansione degli insediamenti umani a danno dei boschi, fino a quando non ne restò soltanto una piccola popolazione nel Gran Bosco della Mesola, insieme ad altri gruppetti provenienti dalla Svizzera in provincia di Sondrio. In seguito, queste migrazioni da oltreconfine si fecero sempre più consistenti, al punto che oggi la specie si è ristabilita in tutto l’arco alpino centro-orientale ed è soggetta anche a prelievo venatorio autorizzato.

Quando si fa riferimento al ruolo sacro di un animale è necessario distinguere i diversi significati che gli si attribuiscono, anche in relazione alle varianti che siffatto ruolo contempla. Nel caso del cervo, si parla principalmente di due simbologie diverse: una riferibile al principio femminile e una al maschile.
Nella mitologia greca la cerva era consacrata a Era, Dea della vita coniugale e della fedeltà, e cacciata da Artemide, la vergine cacciatrice.

Statua di Diana con un cervo. Copia romana di originale ellenico. Parigi, Museo del Louvre.

Statua di Diana con un cervo. Copia romana di originale ellenico. Parigi, Museo del Louvre.

La cerva dalle corna d’oro, di cui parla Pindaro nelle Olimpiche, era un animale sacro ad Artemide: la Dea ne aveva quattro attaccate alla sua quadriga. La terza fatica di Eracle fu la cattura della cerva Cerinea.

Nell’iconografia si ricorda anche la raffigurazione di Diana efesina, o Diana dai molti seni, spesso rappresentata con due cervi, come nella Madre Natura di Villa d’Este a Tivoli, realizzata da Giglio della Vellita. Un esempio di riproduzione di epoca romana di Diana efesina è presente nella collezione Farnese, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Nel simbolismo turco e mongolo, la cerva rappresenta la Terra nelle nozze sacre tra Terra e Cielo. Infatti, secondo la leggenda mongola, Gengis Khan nacque dall’accoppiamento della cerva fulva e del lupo azzurro.

Tornando alla mitologia greca, la cerva dalle corna d’oro e dai piedi di bronzo, che per un anno fu inseguita da Eracle fin nelle regioni iperboree, era consacrata ad Artemide, ed Eracle aveva il compito di catturarla viva. Con una freccia tra osso e tendine, senza versare una sola goccia di sangue, l’eroe riuscì a immobilizzarne le zampe anteriori e a portarla a Micene, l’antica città le cui roccaforti erano simbolo di sicurezza inespugnabile. Virgilio nell’Eneide (VI, 802) scrive: «Ha trafitto la cerva dai piedi di bronzo.» Se si considera il suo carattere selvatico, la lunga fuga della cerva dai piedi di bronzo, che Eracle vuole catturare viva al termine dell’inseguimento verso il nord, fin presso i saggi Iperborei, si può interpretare come simbolo della saggezza, il cui raggiungimento è oltremodo arduo. Va considerato che la femmina di Cervus elaphus non possiede corna, tanto che Plinio riporta: «Tenuiora feminis plerumque sunt, ut in pecore multis, ovium nulla nec cervorum» (In genere [le corna] sono più piccole nelle femmine, come si vede in molte specie di bestiame, pecore e cerve ne sono prive) (Plinio, XI, 45). Per questo motivo si può considerare la cerva cornuta come un essere magico dalle proprietà straordinarie o sovrannaturali.

Joachim von Sandrart I (1606-1688), Diana efesina nella Teutsche Academie

L’immaginario della cerva appare in molteplici forme nella letteratura e nell’arte medioevale, dal ciclo bretone e graalico, dove per tre secoli il cervo, o la cerva, compaiono come segni di Cristo o della Chiesa, alle tradizioni di sant’Eustachio e di sant’Uberto, fino a collegarsi alle ultime tracce della mitologia di Diana alla reggia di Venaria, ma soprattutto fino alla simbologia dell’alchimia, in cui il cervo appare come segno del Mercurio sfuggente. Da quel che scrive Pausania (7, 18, 11), a Patrasso, in Acaia, alla vigilia della festa in onore di Artemide, aveva luogo un magnifico corteo, che era chiuso da una giovane sacerdotessa su un carro trainato da cervi. (Otto, 1933)
Il cerbiatto, invece, trova posto nella mitologia che si riferisce a Dioniso: la ‘nebride’ (dal gr. νεβρίς, o ‘pelle di cerbiatto’) è uno degli attributi di Dioniso e dei suoi seguaci: satiri, sileni e menadi. L’attributo della nebride è una conferma del carattere primordiale del culto dionisiaco. Anche i monti Nebrodi presero il nome dal dio Dioniso. Si può dire che il cerbiatto fosse l’animale totemico di Dioniso: il Dio, secondo i seguaci del suo culto, moriva e rinasceva perennemente nel corpo di un cerbiatto. Questa rinascita del Dio è un chiaro riferimento all’iniziazione. La pelle del cerbiatto sacrificato non smise di coprire, successivamente, il simulacro del Dio, e fu indossata dai sacerdoti e dai seguaci iniziati, come una veste sacra nei riti. Le sacerdotesse di Dioniso, chiamate menadi o baccanti, durante le cerimonie sacre, dopo aver danzato sempre più freneticamente, correndo per monti e valli, al culmine dell’esaltazione, sbranavano le carni crude e sanguinanti, credendo di entrare così, per teofagia, in comunione con il loro dio (Damiano, 1992).
All’apparizione di una cerva bianca bellissima, ancella di Diana e numen loci, è legata anche la fondazione di Capua. Quando quest’ultima fu assediata dai Romani (211 a.C.), una cerva bianca fuggì spaventata nel campo nemico, ma qui fu catturata e sacrificata a Latona. Nella leggenda si cela un evidente rito di evocatio, in virtù del quale i Romani cooptavano nel loro pantheon una divinità tutelare della città vinta. A Capua è presente, infatti, il santuario di Diana Tifatina, alle pendici del monte Tifata.

Eracle e la cerva di Cerinea (540-530 a.C. – anfora ritrovata a Vulci).

Eracle e la cerva di Cerinea (540-530 a.C. – anfora ritrovata a Vulci – foto di Jastrow da Wikipedia).


 
Il carattere iniziatico e alchemico della cerva e del cerbiatto sono richiamati, poi, da un sonetto di Petrarca, il CXC del Rerum vulgarium fragmenta, dal titolo Una candida cerva sopra l’erba. Il luogo di apparizione della cerva bianca «con duo corna d’oro» è un ‘non luogo’, cosmico e intermedio. Tutto, nel sonetto, rimanda ad un’idea di freschezza, di una natura colta in un percorso di maturazione e di trasformazione appena iniziato. Il narratore accenna, poi, a una volontà di seguire una cerva che non si muove, ma è stabile nella centralità della sua visione. Questo quadro rimanda con precisione a un cammino iniziatico verso un centro, che è appunto la «candida cerva». Infine, la caduta del poeta nell’acqua si ricollega alla rinascita, al battesimo e al passaggio a una forma di vita nuova, secondo il rito iniziatico. Il sonetto può essere inteso, infatti, come un passaggio alchemico attraverso fasi di crisi e rinascita, attraverso elementi di luce e acqua.

Una candida cerva sopra l’erba
verde m’apparve, con duo corna d’oro,
fra due riviere, all’ombra d’un alloro,
levando ’l sole a la stagione acerba.

Era sua vista sí dolce superba,
ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro:
come l’avaro che ’n cercar tesoro
con diletto l’affanno disacerba.
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta CXC.

Il rinnovamento e la rinascita sono certamente testimoniati, in questa specie, dal fenomeno della caduta dei palchi, connessi alla virilità e all’affermazione del principio regale collegato alla simbologia delle corna.

Maschio adulto con i palchi ricoperti di velluto (27 aprile 2016) (foto di Santucci, 2016).

Maschio adulto con i palchi ricoperti di velluto (27 aprile 2016) (foto di Santucci, 2016).

I palchi, strutture analoghe ma non omologhe alle corna dei Bovidi, rappresentano la principale caratteristica dei maschi. Essi sono uno dei fenomeni biologici più interessanti: si tratta di escrescenze ossee, le quali sono perdute annualmente per poi riformarsi nel giro di pochi mesi. Alla fine del primo inverno, sullo stelo, cresciuto nella regione frontale, compaiono i primi palchi, nutriti da uno strato di pelle riccamente vascolarizzata, detta velluto; in luglio essa raggiunge il suo massimo sviluppo, ossificandosi. Costituiscono l’unico esempio di osso nudo, poiché, dopo essersi formate, perdono il loro rivestimento cutaneo, comprensivo di epidermide e derma. Al secondo anno di vita, il giovane cervo, contemporaneamente a una diminuzione dei livelli di testosterone nel sangue, subisce la decalcificazione della base dei primi palchi, che, al minimo urto, si staccano, solitamente lungo la linea di distacco, e cadono.

Il fenomeno si ripete con regolarità ogni anno: i palchi cadono, ma sullo stelo se ne formano di nuovi, che raggiungono le dimensioni massime entro quattro mesi, sempre rivestiti di velluto. Anno dopo anno, il volume, il peso e il numero delle punte aumentano. La credenza popolare che sostiene che si possa capire l’età di un maschio contando il numero delle punte e considerando un anno per ogni punta non sempre si dimostra corretta (ma in moltissimi casi è così) e per una stima più accurata dell’età di un cervide si deve osservare la dentatura.

Diversa conformazione dei palchi a seconda dall’età del cervo.

Diversa conformazione dei palchi a seconda dall’età del cervo.


 
Sembra che il cervo, nell’arte delle caverne abitate nell’era glaciale, facesse parte, spesso insieme al toro, di un sistema dualistico mitico-cosmologico. A causa dei suoi palchi di corna simili ad alberi, che si rinnovano periodicamente, il cervo era visto come simbolo della vita che si ripete e si conferma continuamente, della rinascita e del corso del tempo. Fra i simboli alchemici il cervo è in rapporto con l’antico mito del cacciatore Atteone, che fu trasformato in cervo dalla Dea Diana (Artemide tra le divinità greche); il mito si ricollega alla possibile trasformazione dei metalli a contatto con il principio femminile e lunare dell’argento, in alchimia.

Scultura di Atteone e i suoi cani nella Reggia di Caserta.

Scultura di Atteone e i suoi cani nella Reggia di Caserta.


 
Nelle antiche popolazioni italiche, il cervo aveva, con ogni probabilità, anche funzione totemica, in quanto, secondo lo storico Salmon (1995), avrebbe guidato le migrazioni avvenute, durante il rito del Ver Sacrum, di alcune popolazioni che si stabilirono nell’attuale Molise. La prova deriverebbe, secondo lo storico Rix (1955), dall’etimologia del nome dei Frentani, che verrebbe, a sua volta, dalla parola illirica che significa ‘cervo’. È bene tenere a mente che Salmon giudica poco probabile questa ipotesi, ma esamina un’altra evidenza: nelle popolazioni sabelliche esisteva infatti il gentilicium osco Cervidius – a cui abbiamo accennato in precedenza – che fa certamente supporre che il cervo fosse, per loro, un animale guida.

L’iconografia cristiana si fonda principalmente sul Salmo 42 di Davide: «Come il cervo anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio.» Nel mondo mitologico celtico i cervi erano considerati ‘i tori delle fate’ e gli intermediari fra il mondo degli Dei e quello degli uomini.
Il Dio celtico Cernunnos era rappresentato con le corna di cervo. Nelle arti figurative del Medioevo cristiano, in particolare nelle sculture, il cervo era a volte rappresentato nell’atto di piluccare dell’uva, come l’uomo che già sulla terra può godere dei beni divini. Il tendere del cervo verso le sorgenti ha il significato di desiderare l’acqua battesimale che purifica e, per questo motivo, i cervi sono spesso ritratti sui bassorilievi di fonti battesimali.
Ma un altro significato ancora hanno i palchi dei cervi, e questo va ricercato nel significato della simbologia delle corna che si ricollega, nell’etimologia, alla radice KRN, comune, in greco, a Kronos, Karneios – epiteto di Apollo, a sua volta derivato dalla divinità dorica Carneio – e, infine, alla parola greca Keraunos, che designa il fulmine. Alla stessa radice si ricollega il termine ‘corona’, espressione simbolica delle stesse idee, e le due parole, che anche in latino sono assai vicine (cornu e corona), hanno la medesima provenienza. La corona è simbolo del potere e segno del rango più elevato, quindi le corna, come la corona, attribuiscono carattere regale a chi le porta. Inoltre, originariamente, la corona era un cerchio ornato di punte a forma di raggi, che sono innegabilmente attributi di potenza, sia essa spirituale o temporale, designata come emanazione di luce, ove tale potenza sacerdotale o regale, cioè spirituale o temporale, sia legittima. Si trovano esempi delle corna come simbolo di potenza nella Bibbia, in modo speciale nell’Apocalisse, e nella tradizione araba, che definisce Alessandro con il nome di El-Iskandardhûl-qarnein, cioè ‘dalle due corna’ (Guénon, 1936). È interessante notare che, come già sottolineato, le corna possono essere anche associate a simboli femminili (la cerva con le corna d’oro di Virgilio, la cerva bianca del Petrarca), quasi come se si volesse unire e sintetizzare, in un unico simbolo, un principio femminile – fugace e irrequieto -, con uno maschile – potente e regale.

Spesso, nel simbolismo connesso agli animali e alle potenze naturali, si trova questo dualismo, che può inizialmente apparire come un’opposizione tra due forze contrastanti, ma è bene ricordare che i simboli dovrebbero essere pensati come entità unitarie, che, in essi, concentrano tutte le diverse letture e i diversi significati. L’opposizione tra maschile e femminile è, pertanto, solo apparente e i due aspetti sono due interpretazioni di uno stesso simbolo. Le due anime, quella fugace, femminile e irrequieta e quella maschile, stabile e potente, si uniscono per creare l’Armonia e, unendosi, generano un’entità in perfetto equilibrio, in cui l’immobilità e la stabilità generano il movimento, così come il motore immobile è la causa ultima del divenire nell’Universo. Da ciò si desume che il maschile e il femminile non sono divisibili ma legati indissolubilmente l’uno all’altra. Anche Platone, nella Politeia, afferma che audacia e temperanza sono le due virtù fondamentali, ugualmente necessarie al re per governare lo Stato secondo giustizia. In una visione arcaica, la regalità, quindi la stabilità, è connessa alla sapienza sacra e alla saggezza che deriva dalla conoscenza delle leggi divine, della giustizia e delle dinamiche dei cicli naturali. Il potere regale, quindi, non è scisso da quello sacro. Il cervo è, per questo motivo, un potente simbolo riunificatore, che dà risalto a due aspetti necessari della nobiltà: la conoscenza sacra e la regalità, due virtù che i governanti dovrebbero sempre possedere. Il regno animale insegna che, per essere i migliori, quindi per essere adatti a governare e a decidere il destino dei popoli, non ci si può sottrarre a questa legge, pena l’indebolimento della specie, o, nel caso dell’uomo, la fine di un’intera cultura. Tutto si rinnova ciclicamente, ma ogni cosa è sempre e comunque destinata a mutare. La capacità di imprimere una direzione al mutamento naturale, restando fedeli ai propri valori e alle proprie idee, appartiene soltanto agli spiriti nobili. Questa è la capacità che i governanti, in un tempo futuro, prossimo o remoto, dovrebbero tornare ad avere per ripristinare una superiore Armonia tra i vari gruppi umani e tra questi e gli elementi naturali.

 

Bibliografia

  • Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Milano, Garzanti Editore, 1991.
  • Antonino Damiano, Nebrodi Val Demone Agatirno: misteri della storia antica, Capo d’Orlando (ME), Eikon editrice, 1992.
  • René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Milano, Adelphi Edizioni, 1975, (prima edizione Editions Gallimard, Paris, 1962).
  • Walter Friedrich Otto, Dioniso, trad. it. di Albina Ferretti Calenda, Genova, Il melangolo, 2006.
  • Edward Togo Salmon , Il Sannio e i Sanniti, Torino, Einaudi, 1995.

 

Immagini

  • in testata: Silhouette di cervo. Foto da 7 Themes.com (http://7-themes.com/data_images/out/40/6907882-deer-silhouette.jpg)
  • in evidenza: Cervus elaphus Linnaeus, 1758. Foto da 7 Themes.com (http://7-themes.com/data_images/out/62/6982217-deers-autumn.jpg)