Agnano e il lago scomparso

Attorno alla città di Napoli si articola un immenso campo vulcanico, ricco di crateri e di rilievi dalle forme coniche, paralleli alla linea di costa, che fanno dunque da ripartitore naturale delle acque meteoriche sul territorio. La Conca di Agnano è uno di questi crateri, situato tra quello degli Astroni e la Solfatara, e appartenente al sistema dei Campi Flegrei. Per la particolare conformazione geologica del territorio partenopeo le acque piovane trovano scolo direttamente lungo il litorale, ma se incontrano avvallamenti vi si raccolgono formando veri e propri bacini. Sembra che questo sia ciò che si è verificato ad Agnano per la formazione dell’omonimo lago.

Il lago di Agnano (Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794)

Il lago di Agnano (Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794)


 
La data di origine è ignota, si fa risalire la formazione del bacino tra X e XI secolo, supponendo dunque che la sua esistenza abbia occupato circa otto secoli. La superficie era di 924020 m2 e la profondità media annuale di 12 m, secondo quanto desunto da una proposta di legge del 15 febbraio 1865 presentata dal Ministro d’Agricoltura, Industria e Commercio. La costituzione del lago cambiò l’assetto geologico del territorio, sommergendo parte della piana dove era stato costruito in epoca romana un grande edificio termale; il complesso, non più alimentato dai soffioni, andò in rovina, ma l’attività termale persistette lungo i fianchi della collina, dove fu stabilita la struttura detta “sudatorio di Agnano” o “stufe di San Germano”. Attraverso dei sentieri che si ramificavano intorno al lago era inoltre possibile raggiungere una serie di grotte in cui si assisteva al fenomeno vulcanico delle mofete, emissioni calde di gas di acido carbonico; tra esse era nota la Grotta del Cane.

La grotta del Cane e sulla sinistra il lago di Agnano (acquaforte aquerellata tratta da Sieur de Rogissart, Les délices de l'Italie [...], Volume 3, Leida, Pierre Vander Aa, 1706).

La grotta del Cane e sulla sinistra il lago di Agnano (acquaforte aquerellata tratta da Sieur de Rogissart, Les délices de l’Italie […], Vol. III, Leida, Pierre Vander Aa, 1706).


 
Le acque del lago apparivano torbide e melmose, tanto che si pensava non ci fosse forma di vita nei suoi flutti. Al contrario è stata riportata da Oronzio Gabriele Costa la presenza di pesci quali la tinca Tinca tinca (Linnaeus, 1758) e di numerosi crostacei. Presenti sul luogo anche uccelli acquatici, come la folaga Fulica atra (Linnaeus, 1758), che alimentavano le attività venatorie.

folleche Agnano e ranonchie Sebeto Pagano, 1746

L’origine del nome è controversa. Un’ipotesi fa risalire Agnano ad Anguiniano e quindi al latino Angues, poiché il lago si diceva popolato da serpenti. Dal momento che nei pressi del bacino erano collocate delle terme chiamate Angulane, il letterato italiano Camillo Pellegrino nella sua opera Apparato alle antichità di Capua ovvero discorsi della Campania Felice, scritta nel 1651, ha attribuito ad esse l’origine del nome. Altri affermano che Agnano derivi da Agnisco, che in greco vuol dire purificare, riferendosi all’attività di maturazione del lino. La teoria più accreditata è quella ipotizzata nel 1874 da Giovanni Flechia, professore di lingue della Regia Università, e confermata poi nel 1931 da Raimondo Annecchino nel suo libro, ossia che Agnano derivi da Annianum, fondo di proprietà della nota famiglia Annia di Pozzuoli.

I fenomeni  naturali derivanti dall’attività vulcanica che si manifestavano nelle acque del bacino alimentavano la fantasia popolare. Un aneddoto racconta che i frati Gesuiti avevano architettato uno stratagemma per evitare che i questuanti Cappuccini sottraessero loro risorse del lago. Per cui quando i Cappuccini chiedevano in elemosina rane il pescatore doveva riferire di aver pescato solo tinche, quando i frati chiedevano tinche avrebbe dovuto dichiarare di avere solo rane. Nel caso in cui fossero state chieste tinche e rane avrebbero esibito un “mostro” con il corpo per metà tinca e per metà rana. La prova di tale miracolo divino fu smascherata a Milano, quando Antonio Vallinsieri affermò che l’esemplare consisteva semplicemente in un girino.

Fra Bagnuoli e Fuori grotta vi è alla mano sinistra la strada che conduce nel Lago di Agnano. Questo è di figura circolare e gira due miglia circa. Resta in fondo di un cratere che presenta la bocca di un antichissimo estinto vulcano. Alcuni hanno immaginato esservi stata una città. Palatino, 1826

Le credenze popolari non impedirono però lo sfruttamento del sito, e nel 1451 Alfonso I d’Aragona spostò l’attività di macerazione della canapa nel Lago di Agnano. Precedentemente tale attività era svolta nelle cosiddette parule, acquitrini che si formavano per azione delle acque meteoriche che dai versanti scaricavano direttamente nel golfo di Napoli. Le operazioni di macerazione rendevano però l’aria malsana e invivibile, fu per questo che si pensò di deputare il cratere di Agnano a questo scopo, così come era già stato fatto per il Lago Fusaro, liberando il centro della città dalle esalazioni maleodoranti. Le mannelle di canapa venivano così poste in prossimità della riva, affossate con delle pietre e lasciate macerare finché non raggiungevano la consistenza desiderata.

Agnano sulla sinistra l'area in cui era presente il lago (inizi XX sec.).

Agnano sulla sinistra l’area in cui era presente il lago (inizi XX sec.).


 
Inizialmente questo non causò problemi al lago, ne è testimonianza il banchetto ivi organizzato nel 1452 da re Alfonso per il matrimonio di sua nipote Eleonora con Federico III d’Asburgo. Successivamente però il problema dei miasmi si ripropose nell’area flegrea, rendendo l’aria irrespirabile soprattutto nella stagione estiva. Tra le testimonianze storiche sulla insalubrità della zona si ricorda la richiesta dei Padri Cappuccini del Convento di San Gennaro a Pozzuoli, che a causa del perdurare delle febbri malariche chiesero al Municipio una zona di terreno per edificare la sede della loro dimora estiva, costruita poi sulla collina dei Camaldoli.

Balneum Sudatorium (Stufe di San Germano).


 
L’attività di macerazione fu così abolita poiché si pensava fosse responsabile di problemi di salute pubblica. Nel 1861, fu approvato il decreto per il prosciugamento del Lago di Agnano, spostando l’attività di macerazione della canapa alla foce dei Regi Lagni.

I lavori di bonifica iniziarono nel 1865 e proseguirono fino al 1870 con il prosciugamento del bacino. L’intervento constò di due fasi: fu costruito un emissario che passando sotto il Monte Spina scaricava le acque del lago direttamente nel mare di Bagnoli, successivamente il fondo del bacino fu riempito per colmata, poiché la differenza di livello rispetto al piano dell’emissario non permetteva il deflusso delle acque.

La bonifica ebbe però un effetto secondario del tutto imprevisto: grazie al prosciugamento, infatti, furono portate alla luce decine di sorgenti termali che tappezzavano il fondo del lago e che ora, liberate dalle acque che avevano alimentato per centinaia di anni, sgorgavano e ribollivano nuovamente dal suolo. Tale episodio fu per anni trascurato, fin quando non si pensò di dare nuova vita alle strutture termali che in epoca romana erano così fiorenti.

Le terme di Agnano

Le terme di Agnano


 
Oggi le terme di Agnano sono una realtà a beneficio non solo degli abitanti dei Campi Flegrei, ma anche di una moltitudine di turisti, attratti dalla bellezza della struttura e dalla possibilità di fare un tuffo nel passato, ammirando i resti archeologici dei tempi antichi.

 

Bibliografia

  • Benedetto Di Falco, Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del suo amenissimo distretto, Napoli, Giovanni Battista Cappelli, 1589.
  • Camillo Pellegrino, Apparato alle antichità di Capua overo discorsi della Campania Felice, Napoli, Francesco Savio, 1651.
  • Ferrante Loffredo, L’antichità di Pozzuolo et luoghi convicini, Napoli, Antonio Bulifon, 1675.
  • Giuseppe Fiore, Il Lago di Agnano: una realtà distrutta e dimenticata, Napoli, RCE multimedia, 2013.
  • Lorenzo Palatino, Storia di Pozzuoli e contorni con breve tratto istorico di Ercolano Pompei, Stabia e Pesto, Napoli, Luigi Nobile, 1826.
  • Oronzio Gabriele Costa, Fauna del regno di Napoli ossia enumerazione di tutti gli animali che abitano le diverse regioni di questo regno e le acque che le bagnano […] Pesci, Napoli, Francesco Azzolino, 1850.
  • Paolo Casoria, Implicazioni sociali della lavorazione della canapa tessile (Cannabis sativa L.) nel territorio di Napoli, Delphinoa, 48 (2006), pp. 61-70.
  • Raimondo Annecchino, Agnano l’origine del nome e del Lago, Napoli, Tipografia Unione, 1931.

Immagini

  • in testata: il lago di Agnano, dipinto di Oswald Achenbach (coll. priv.).
  • in evidenza: Il lago di Agnano



Il lago di Follicola

Il lago di Licola era un antico bacino situato vicino alla città di Pozzuoli, in una zona poco più a Nord di Cuma. La natura paludosa dell’area ne faceva una sosta obbligatoria per gli uccelli nidificanti in zone umide, in particolare numerosi erano gli individui di folaga.

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Fulica atra (foto di Serena Bonanno)

Fulica atra Linnaeus, 1758 è un volatile appartenente alla famiglia dei rallidi in cui sono caratteristici il piumaggio grigio-nero uniforme e il becco bianco, in continuità con la placca frontale bianca che si prolunga fin sopra agli occhi. È facile avvistarla in ambienti con acque ferme e salmastre, tipiche proprio della zona a Nord dei Campi Flegrei.
La predilezione di questi uccelli per il lago portò al toponimo Licola, che deriva appunto da follicola, nome dialettale attribuito alla folaga.
Il lago fu interessato da un ambizioso progetto voluto da Nerone, la navigabilis fossa.
Svetonio, infatti, parlando di alcuni interventi progettati da Nerone nella zona flegrea, fornisce rilevanti dettagli anche su questo canale che doveva servire quale percorso sussidiario alla navigazione costiera marittima, la cui lunghezza sarebbe stata pari a centosessanta miglia, mentre la larghezza avrebbe permesso il passaggio contemporaneo di due quinqueremi in movimento nelle due direzioni. Per l’esecuzione dei progetti era previsto un imponente impiego di uomini reclutati tra i condannati ai lavori forzati. Più che per una stravaganza di Nerone la navigabilis fossa sarebbe dovuta servire per il trasporto del grano a Roma, sempre a corto del prezioso alimento.
Il percorso navigabile avrebbe sfruttato laghi e lagune costiere, quali il piccolo lago di Licola, il lago di Patria, le paludi di Sessa Aurunca e quelle della foce del Liri-Garigliano, il lago di Fondi e il laghetto di Sperlonga e, più a nord, i vasti e continui bacini lacustri fino alle lagune ostiensi [Arata, 2014].

Praeterea incohabat […] fossam ab Averno Ostiam usque, ut navibus nec tamen mari iretur, longitudinis per centum sexaginta milia, latitudinis, qua contrariae quinqveremes commearent. Svetonio Vite dei Cesari VI, 31

«Vicino al lago si osservava in una collina il vestigio di una grotta, che al presente più non si vede. Quest’era l’avanzo di quel gran canale navigabile, che aveva incominciato a far aprire Nerone sotto la direzione di due architetti Celero, e Severo, per condurlo dall’Averno sino ad Ostia nell’imboccatura del Tevere, lusingandosi di venire in barca per questo canale da Roma fino a Baja» [Panvini, 1818].
Laghi Flegrei sL’imponenza dell’opera, definita anche fossa neronis catturò l’attenzione di molti autori classici, lasciandoci numerose informazioni in fonti antiche. Plinio ad esempio riporta: «Prima [dell’età di Augusto] era famosissima la buona qualità del vino Cecubo [Piano di Fondi] prodotto tra i pioppeti palustri del golfo di Amicle, che già cessò per la negligenza dei proprietari e per la ristrettezza del territorio, ma ancor più a causa del canale navigabile di Nerone, che questi aveva cominciato a costruire dal lago di Baia fino a Ostia» così recita Plinio il Vecchio, contemporaneo degli eventi» [Plinio il Vecchio Naturalis Historia, XIV, 61].
Tacito negli Annales ci dà i nomi di Severus e Celer quali progettisti, ben noti per l’arditezza e la genialità delle loro opere, tra cui spiccava la domus aurea. La morte di Nerone comportò la sospensione del piano, ma le sue ragioni sembrano essere state riprese qualche decennio più tardi da Domiziano, attraverso la costruzione della via Domitiana, realizzata in Campania lungo lo stesso tracciato della fossa, utilizzandone i lavori preparatori già realizzati (Arata, 2014).
Come unico ricordo della fossa neronis «si vedono al presente gli avanzi, della strada co’ marciapiedi; onde con ragione meritò la derisione, e restarono solamente al dir di Tacito: vestigia irritae spei» [Panvini, 1818].
«Il bassopiano di Varcaturo e Licola sino alla fine dell’800 era in gran parte occupato da un lago lungo circa 2,5 km a cui seguiva verso nord il pantano di Lingua di Cane lungo circa un altro kilometro. Ancor oggi una lunga fascia con direzione nord-sud ad oriente della pineta di Licola è ad una quota inferiore al livello del mare ed in essa si raccolgono le acque meteoriche» Questo estratto proviene dall’articolo Ricerche idrogeologiche nel distretto di bonifica di Licola-Varcaturo dell’ingegnere Pasquale Nicotera, pubblicato nella rivista Geotecnica del 1959.

Carlo III di Borbone a caccia di folaghe sul Lago di Licola

Claude Joseph Vernet, Carlo III di Borbone a caccia di folaghe sul lago di Licola, 1746 (olio su tela 74×155,5 cm, Museo di Capodimonte, Napoli)


 
Attualmente il bacino è completamente prosciugato. La sua esistenza tuttavia, oltre che comprovata dalla letteratura, è celebrata anche nelle arti. Si ricordi l’olio su tela di Claude Joseph Vernet Carlo III di Borbone a caccia di folaghe sul lago di Licola realizzato nel 1746; il quadro ritrae il re con la sua corte impegnato in una battuta di caccia su barche, in procinto di catturare folaghe.
 

Bibliografia

  • Francesco Paolo Arata, La navigabilis fossa di Nerone, «Mélanges de l’École française de Rome – Antiquité», 126 (2014), 1. (consultazione dicembre 2015, URL: http://mefra.revues.org/2114).
  • Pasquale Nicotera, Ricerche idrogeologiche nel distretto di bonifica di Licola-Varcaturo, «Geotecnica», 1959.
  • Pasquale Panvini, Il forestiere alle antichità e curiosità naturali di Pozzuoli, Cuma, Baja e Miseno in tre giornate, Napoli, Nicola Gervasi, 1818
  • Oronzio Gabriele Costa, Del Fusaro delle sue industrie, alterazioni avvenute, de’ mezzi per allontanarle e de’ miglioramenti da introdurne, Napoli, s.e. 1860.

 

Immagini

  • in testata: il lago di Licola (Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794).
  • in evidenza: Fulica atra (foto di Serena Bonanno).



Silva Gallinaria

Gallinula chloropus (Linnaeus, 1758), conosciuta col nome comune di gallinella d’acqua e in napoletano come gallenella follacara o gallenella riale, è un uccello appartenente alla famiglia dei rallidi (ordine Gruiformes) caratterizzato da un piumaggio nero e da una diagnostica placca frontale rossa. È tipicamente legato agli ambienti palustri che presentino specchi d’acqua libera, ferma o con corente debole, ma è possibile trovarlo in zone umide di varia natura ed estensione.

In Campania la presenza stanziale della specie è testimoniata fin da tempi antichissimi, tanto da aver suggestionato alcuni toponimi locali. È il caso della Silva Gallinaria, una foresta di remote origini che si estendeva dall’antica città di Linternum, oggi località Patria, fino alla foce del Fiume Volturno.
Sembra che l’insolito nome dato alla foresta sia associato proprio alla specie Gallinula chloropus, un tempo abbondante nel territorio flegreo, e non riconducibile alla gallina (Gallus gallus), come alcuni autori propongono.

Inter huius amnis et Vulturni ostia protendebatur ad oram maritimam silva Gallinaria, ita secundum Varronem a gallinis, quae frequentes ibi erant, dicta. Johannes Julius Stein 1838

Le fonti storiche che parlano della Silva Gallinaria risalgono alle letture antiche, in quanto sembra corrispondere alla antiquam sylvam descritta da Virgilio nel libro VI dell’Eneide.

Foto di Serena Bonanno

Foto di Serena Bonanno

Itur in antiquam silvam, stabula alta ferarum,
procumbunt piceae, sonat icta securibus ilex
fraxineaeque trabes cuneis et fissile robur
scinditur, advolvont ingentis montibus ornos.
Virgilio Eneide VI, 179-182

«Questa selva, nella quale tali rami e tronchi tagliano, e raccolgono i Troiani, per formare il gran rogo al cadavere di Miseno, non dovette esser altra, che la vasta, annosa Selva Gallinaria tanto celebrata dagli antichi, la qual era intorno alle spiagge Cumane, ed estendevasi fino al Lago Averno. […] E mentre a tal uopo egli ancora con suoi s’impiega, al mirar la Selva si ricorda di quello la Sibilla detto gli aveva, cioè, che in essa si conservava quel ramo d’oro, per cui virtù poteasi discendere ne’ Campi Elisi» [Scotti 1775].

In passato la foresta si estendeva fino alle sponde del Lago Fusaro, in corrispondenza del quale si associava a una pineta: «Questo lato vien detto la Paneta, nome volgare derivante da Pineta, perché di pini fu un tempo coperta. Essa di fatto è in continuazione della famosa e vetustissima Selva gallinaria, la quale estendevasi da Patria (Literno) a Castel volturno, o l’antico Vulturnum; e che anche al presente conoscesi con lo stesso volgar nome Paneta» [Costa O.G. 1860].

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da Nederlandsche Vogelen


Molti sono i testi di epoca romana che citano la Silva gallinaria perché si affiancava al Fusaro che era in collegamento con il mare e rivestiva sia un importante ruolo commerciale sia un importante centro di coltura dei mitili. La foresta era nota però anche per la qualità del legno che se ne ricavava; lo stesso Sesto Pompeo lo utilizzò per la costruzione delle navi della sua flotta durante le Guerre Civili. «La gran pianura ricoverta di lentisco e di pini che da Patria si estende al Volturno, era detta silva gallinaria, o gallinaria pinus. […] Di là i Romani traevano il legname per le loro flotte e colà i pirati costruirono i loro navigli e mossero con Sesto Pompeo alla conquista del Mediterraneo» [Ajello 1845].

La selva non godeva di buona fama in passato, dal momento che costituiva un sicuro rifugio per ladri e rapinatori, ed era perciò temuta dai mercanti. Fin dai tempi di Giovenale, infatti, furono stanziate delle truppe di soldati che rendessero più sicuro il passaggio attraverso la foresta.
Nel XVIII secolo la passione venatoria della famiglia reale spinse i Borbone a commissionare al Vanvitelli la costruzione di un casino di caccia sul Lago Fusaro. La Casina fu dunque sfruttata come appoggio durante le battute nella parte di selva chiamata bosco del Gavitello, in continuità con la riserva reale di Varcaturo, in località Pantano.

Dissertazione corografico-istorica delle due antiche distrutte c

tratta da Dissertazione corografico-istorica delle due antiche distrutte città Miseno e Cuma

 

Nel 1932 la zona fu segnata da un’opera di bonifica atta a circoscrivere gli ambienti palustri, con la costruzione di canali di scolo.
Dopo lo scioglimento dell’Opera Nazionale per i Combattenti, è entrata a far parte della riserva del Parco Regionale dei Campi Flegrei.
Attualmente le dimensioni della foresta appaiono drasticamente ridotte, frazionate in un’area compresa tra il Volturno e Lago Patria, denominata Pineta, ed in un’altra parte che copre il litorale tra Licola e Cuma.
Dal punto di vista vegetazionale la fitta copertura arborea della foresta, testimoniata da numerose fonti antiche, costituiva anche un confine tra il litorale cumano e la zona acquitrinosa retrostante.
Le prime modificazioni avvennero in epoca romana, quando vi fu un intenso sfruttamento del lecceto per ricavare un’ottima qualità di legno da costruzione. Il diradamento arboreo tuttavia arrecò danni alle piantagioni retrostanti la selva, in quanto bruciate dai venti provenienti dal mare che non erano più schermati dalla foresta. Per offrire una nuova protezione furono inseriti dei filari di pioppo.
Costa documenta lo stato vegetazionale della foresta ai suoi tempi come di un tipico esempio di macchia mediterranea: «Attualmente la stessa selva è folta di elci, frassini, salici, olmi e querce: e solo alla sponda prossima al mare v’à di conifere il ginepro» [Costa O.G. 1860].
Oggi conserva ancora il suo tipico aspetto di foresta mediterranea sempreverde, sebbene si osservi una diminuzione della componente arborea, in particolare per il leccio.
La selva era di grande importanza per l’avifauna, in particolare per le specie palustri che vi trovavano ristoro dopo le loro migrazioni.
Nonostante il suo grosso ridimensionamento nel corso della storia, la foresta continua oggi ad essere un’irrinunciabile zona di passaggio per gli uccelli, risultando dunque un ottimo punto di avvistamento per i naturalisti.

 

Bibliografia

  • Giovanni Battista Ajello, Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, vol. II, Napoli, Stabilimento tipografico di Gaetano Nobile, 1845.
  • Oronzio Gabriele Costa, Del Fusaro delle sue industrie, alterazioni avvenute, de’ mezzi per allontanarle e de’ miglioramenti da introdurne, Napoli, s.e. 1860.
  • Benedetto Gravagnuolo, Carlo Vanvitelli, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2008.
  • Marcello Eusebio Scotti, Dissertazione corografico-istorica delle due antiche distrutte città Miseno e Cuma: per lo rischiaramento delle ragioni del regio fisco contra la Università di Pozzuoli, Napoli, s.l., 1775.
  • Johannes Julius Stein, De Capuae gentisque Campanorum historia antiquissima ab initium usque belli samnitici primi, Bratislava, typis Officinae Friedlaenderianae, 1838.
  • Publio Virgilio Marone, Aeneidos libri duodecim, in Idem, Opere, a cura di Carlo Carena, Torino, UTET, 1971 («Classici latini. Collezione fondata da Augusto Rostagni diretta da Italo Lana»), pp. 289-879.

 

Immagini

  • in testata: primo piano di Gallinula chloropus (foto di Weedmandan).
  • in evidenza: Gallinula chloropus (foto di Martien Uiterweerd).



I guardiani della notte: il gufo e la civetta

In molte culture tradizionali, da Oriente a Occidente, l’essere alato ha da sempre raccontato un legame con il divino.
Ogni parte anatomica degli uccelli, ogni caratteristica legata al verso ha evocato simboli celesti. In particolar modo le ali rappresentano nella tradizione cristiana la spiritualizzazione, la protezione del creato, il volo verso l’alto; il verso, invece, il linguaggio che «stabilisce la comunicazione con gli stati superiori dell’essere» [Guenon 1975].
Ciò nonostante il verso del gufo e della civetta, come altri uccelli notturni, nelle tradizioni popolari occidentali ha ispirato simboli negativi, al punto da demonizzarli.
Come tutti gli animali totemici, la civetta e il gufo possono essere il simbolo di una singola persona oppure di intere popolazioni. In alcune tradizioni l’associazione con il proprio totem avviene durante una cerimonia d’iniziazione che lega lo spirito dell’uomo allo spirito dell’animale, tanto da assumerne gli aspetti e gli atteggiamenti.
Gli strigidi, famiglia a cui appartengono il gufo e la civetta, prendono il loro nome dal latino strix, da cui è derivato in italiano il nome strega. Infatti si narra che le streghe assumessero dapprima, in epoca romana, fattezze di uccelli notturni con testa grossa, il becco e gli artigli da rapace per una magia; successivamente, nel Medioevo, assunsero fattezze umane di donne brutte che partecipavano ai sabba per unirsi ai demoni.

Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena né Progne vi si vedono;
ma meste strigi et importune nottole.Sannazaro Arcadia

La fama di questi rapaci notturni è cambiata nel corso della storia in base alle popolazioni. Noi occidentali la civetta l’abbiamo considerata compagna delle streghe, ma per quanto riguarda i rapaci notturni e le tradizioni a essi legate c’è un po’ di confusione, forse dovuta alla somiglianza che queste specie hanno tra loro e il mancato riconoscimento negli avvistamenti notturni. Entrambe le specie hanno la testa un po’ più grande rispetto al resto del corpo, occhi molto gradi e dal colore molto vivace, becco adunco, zampe tipiche dei rapaci e, per i non esperti, un verso poco distinguibile. Proprio per questo hanno a volte assunto il termine generico di nottola oppure, in altri casi, il termine gufo e civetta sono stati utilizzati indistintamente.
Gli egizi associavano la figura della civetta alla morte, utilizzando la sua figura nell’alfabeto geroglifico per rappresentare l’anima che abbandonava il corpo.

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Moneta greca chiamata tetradramma o civetta

 

Nella mitologia greca, invece, la civetta è considerata simbolo della sapienza, dell’intelligenza razionale capace di discernere laddove altri scorgono solo ombre e oscurità tanto che Atena, dea della saggezza, è rappresentata spesso con una civetta posata sul palmo di una mano. Le monete ateniesi chiamate civette avevano raffigurato su un lato la dea Atena, sull’altra faccia appunto la civetta. Inoltre il suo nome greco è glàux, “la rilucente” e per questo paragonata alla luna che brilla di luce riflessa. Da allora, la presenza nella notte della civetta è associata al vegliare del saggio e il suo verso stridente non rappresenta più un presagio funesto ma l’avvertimento all’uomo della brevità della vita.

Rivista Gianbattista Basile

In epoca romana la civetta era considerata portatrice di malaugurio e secondo le leggende si nutriva di sangue e carne umana. Nella letteratura latina si racconta che donne esperte di magia si trasformassero anche in gufi.
Così come in altre superstizioni popolari, anche a Napoli quando si sentiva stridere una civetta si diceva: “È buono addo’ canta e malamente addo’ tremete (guarda)” oppure “Biato a do’ posa e maro’ (guai) a do’ canta”. Il suo stridere era, infatti, associato ai lamenti delle anime dei morti così come riportato anche da vari autori della letteratura classica. Queste credenze popolari hanno fatto sí che la civetta fosse la specie più perseguitata per la sua fama di uccello del malaugurio.

Altra espressione rimasta nella tradizione napoletana è: “Pare’ ’a Coccovaja ’e Puorto” (letteralmente: sembrare la civetta del porto; in senso traslato: donne particolarmente brutte e sgraziate). Questo detto prende origine dalla famosa Fontana degli Incanti o della Cuccuvaja che fu costruita nella metà del XVI sec. per volere di don Pedro di Toledo e all’epoca situata in Piazza di Porto o dell’Olmo (attuale Piazza Bovio), antistante la zona del porto. Ciò che resta di questa fontana è oggi in Piazza Salvatore di Giacomo a Posillipo, ma le sue condizioni sono indegne. È chiamata Fontana della Cuccuvaja perché vi era scolpita la statua di una civetta e Fontana degli Incanti poiché una leggenda narra che una strega utilizzò l’acqua di quella fontana per preparare una pozione che avrebbe fatto innamorare una giovane popolana di un nobile spagnolo; altri raccontano invece che i mercanti e i venditori “incantavano” le proprie merci.
La più antica testimonianza del legame tra il gufo e l’uomo risale all’epoca preistorica nella grotta di Chauvet dove tra le incisioni di vari animali c’è anche quella dei gufi.
Il gufo è riconosciuto per antonomasia il rapace che vede nell’oscurità e diventa attivo di notte quando buona parte dei viventi dormono. Così come la civetta, anche il gufo, abile cacciatore nella notte, ha un volo molto silenzioso ma il suo verso è capace di squarciare la quiete notturna. Nella tradizione magica, è simbolo di chiaroveggenza, saggezza, conoscenza, consapevolezza ed è elevato a simbolo di colui che vede oltre il velo dell’oscurità. Associato a maghi e indovini, per la sua duplice natura il suo potere è utilizzabile sia per scopi positivi sia negativi.
In epoca romana le immagini dei gufi erano usate per combattere e respingere il malocchio.
In varie culture incarna la ricerca spirituale, la meditazione sulla morte e il silenzio del mistero del mondo. Nella cultura sciamana il totem del gufo rappresenta la profondità della realtà psichica, la guida per ritrovare la luce della saggezza ed era impiegato anche nella ruota della medicina.

et uncta turpis ova ranae sanguine, plumamque nocturnae strigis Orazio Epodi V

Per la sua ambivalenza simbolica, il gufo ha anche evocato l’emblema del traditore che prepara nell’ombra oscuri progetti. Durante il periodo del Rinascimento l’emblema del genio cattivo era raffigurato con un gufo in mano.
Oggi il gufo e la civetta sono utilizzati come amuleti che aiutano a riconoscere il cammino, interpretare messaggi apparentemente incomprensibili e proteggere dall’eccessivo attaccamento ai beni materiali.

 

Bibliografia

  • Alfredo Cattabiani, Volario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2010.
  • Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2014.
  • Antonio Colombo, La fontana degli incanti, «Napoli nobilissima», VII (1906), 8 pp. 113-115.
  • René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975.
  • Jacopo Sannazaro, Arcadia, Venezia, Giovan Andrea Valvassori, 1559.

 

Immagini

  • in testata: foto di Abariltur.
  • in evidenza: Athene noctua (foto di Trebol-a – https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Athene_noctua_(portrait).jpg).