Che “ragno” strano

Con l’arrivo della stagione estiva le passeggiate in montagna diventano un modo piacevole per sottrarsi alla calura della città. Non di rado, riposandosi nelle zone più ombreggiate, capita di imbattersi in alcuni animaletti dal corpo piccolo e compatto e dalle lunghe zampe.

Opilionide (foto di Fabio Russo)

Si tratta di aracnidi appartenenti all’ordine degli Opiliones, gruppo ampio e diversificato composto da circa 5000 specie. Questi aracnidi, pur non essendo ragni, sono spesso confusi con i folcidi, ragni appartenenti all’ordine Araneae, e a noi ben noti per la loro pacifica presenza nelle cantine e talvolta nelle case. Questi nostri occasionali coinquilini, come gli opilionidi, hanno lunghe e sottili zampe. La differenza somatica principale tra i due gruppi riguarda la presenza, negli opilionidi, di un corpo non suddiviso in segmenti, cosa invece riscontrabile nei folcidi dove è chiara la distinzione tra prosoma e opistosoma. Gli opilionidi maschi presentano, inoltre, una peculiarità: un pene utilizzato per l’accoppiamento diretto. In genere, infatti, gli aracnidi ne sono privi dovendo ricorrere, durante la fecondazione, a delle appendici (pedipalpi) per trasferire alla femmina una sacca contenente gli spermatozoi, definita spermatofora.

Folcide (foto di Fabio Russo)

Una simpatica curiosità è che i folcidi devono il loro nome alle lunghe e poco aggraziate zampe: il termine folcide deriva dal greco φολκός (pholkós) ‘dalle gambe storte’. Questo epiteto era già stato attribuito anticamente a un personaggio della mitologia greca: Tersite, l’anti-eroe. Del resto la kalokagathia (cioè bello e buono) prevedeva che a un animo poco nobile si accompagnasse un corpo ancor meno armonioso. Questo principio non è certo valido per i nostri amici folcidi che di ‘cattivo’ non hanno nulla, risultando anzi assolutamente innocui per l’essere umano. Se consideriamo il loro aspetto, è estremamente soggettivo trovarvici o meno bellezza, ma la delicata potenza della vita che si esprime in diverse forme e strategie… quella si che è incantevole.

Immagini

  • in testata: Opilionide con acaro (foto di Fabio Russo).
  • in evidenza: Opilionide (foto di Fabio Russo).



Il simbolismo dell’Uovo

Gli Orfici narravano che la Notte dalle ali nere fu amata dal Vento e depose un uovo d’argento nel grembo dell’Oscurità. Raccontavano che Eros, o Fanete, nacque da quell’uovo e infuse il movimento all’Universo.
In questo racconto, l’inizio è narrato come una unità perfetta, ma poi essa si scinde, dando origine a esseri separati. Si assiste a un ciclo di reintegrazioni delle parti separate nell’unità del tutto, secondo un processo di dissoluzione e successiva coagulazione.

Nella mitologia greca, dall’uovo di Leda, inseminato da Zeus-cigno, vennero alla luce i Dioscuri, Castore e Polluce, simbolo dei due poli della creazione. Essi, a ricordo della loro origine, portano un copricapo a forma di uovo.

Francesco Melzi, Leda col cigno, 1505-1507, Galleria degli Uffizi, Firenze.

L’uovo è un nucleo di rigenerazione, il luogo celato ai sensi in cui avviene la “seconda nascita”,  in una sorta di “avviluppamento”, quindi di chiusura al mondo esterno e profano. In questo luogo interno e interiore, l’Uovo del Mondo funge da athanor. Tuttavia, nell’uovo, il cosmo non è al suo stato di manifestazione, ma è in esso che si definisce ciò da cui partirà il suo sviluppo. L’Uovo del Mondo è un simbolo centrale, in rapporto al cosmo, perché è il punto di inizio, potremmo dire lo zero della non manifestazione, ma anche l’uno della manifestazione che, dal suo centro, ha inizio. In questo modo, il simbolo ha una doppia valenza, mostrandosi, di fatto, come un rebis. Ha due stati: la manifestazione e la non-manifestazione. È quindi doppio.

Inoltre, è di grande importanza notare una differenza: l’uovo non è una sfera e non ha un unico centro, ma due poli, quindi, in questo simbolo, si assiste allo sdoppiamento del centro, come accade tra il cerchio e l’ellisse. L’uovo non è la forma primordiale, ma è la sintesi della polarizzazione del mondo. Non è neanche simbolo di nascita, ma di rinascita, ovvero di seconda nascita.

La sua idea fondamentale non è la “nascita”, è invece la “ripetizione della nascita” esemplare del Cosmo, l’imitazione della cosmogonia.Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni

L’uovo, a celebrazione della seconda nascita della natura dopo la notte dell’inverno, onora la primavera e il suo equinozio, la fioritura della vita e la doppia natura dell’esistenza: materiale e spirituale, terrena e celeste.
L’uomo è congiunzione tra i poli, infraumano e sovraumano, e questa sintesi è ben descritta dall’immagine simbolo della cultura partenopea: Pulcinella.
Pulcinella proviene dall’Uovo cosmico: il cosmo è Napoli. Nascosto nell’omonimo castello che sostiene il destino della città, Pulcinella, il “piccolo pulcino”, è duale, come la città. È l’unione degli opposti, che si scinde e si riunisce, come il solve et coagula alchemico. Alchemica è anche l’intera figura, composta dai colori nero (la maschera col naso aguzzo e penetrante), bianco (il camiciotto largo, stretto in vita da una corda) e rosso (la maglia che si intravede sotto la tunica). Il copricapo è frigio. Nigredo, albedo, rubedo: il costume è una sintesi delle fasi dell’opera alchemica.

La maschera è sovrapposizione di antichi culti che si trasmettono nel popolo per rinvigorire il ricordo dei riti arcaici e dei misteri.

Pulcinella è convivenza degli opposti. L’uovo è, però, scissione e trazione del mondo verso due poli contrastanti. I due poli non sempre sono in equilibrio – in alcune epoche prevale l’uno, in altre domina l’altro – e talvolta essi determinano opposte visioni del mondo, decidendo le sorti dei popoli. La prevalenza di un polo può, di fatto, rovesciare una visione del mondo, quindi rovesciarne le sorti. Da quale polo saremo attratti?




’A mammana Miella: tra medicina popolare e antiche tradizioni

’A mammana Miella Lucia D’Aponte con alla sua sinistra Flavio di Martino, Sindaco di Castellammare di Stabia negli anni ’70, e la moglie Virginia.

Ai primi del ‘900, Lucia D’Aponte, che ebbe tra i suoi maestri anche il dottor Giuseppe Moscati, si diplomò a Napoli al Regio Collegio delle Ostetriche. Esercitò in tempi diversi dai nostri, quando si nasceva in casa con l’aiuto dell’ostetrica e delle donne di famiglia. Erano loro a tagliare il cordone ombelicale ai nuovi nati e a occuparsi delle tante incombenze del parto. Lucia D’Aponte, conosciuta da tutti come ’a mammana Miella, sapeva cosa fare e cosa raccontare per alleggerire il travaglio. All’inizio del secolo, la medicina popolare aveva ancora bisogno dell’aiuto dei Santi: l’olio di sant’Antonio, il fazzoletto di san Gerardo, la reliquia di santa Rita… nella borsa della mammana, insieme al forcipe per tirare fuori un bambino troppo grosso, c’erano i segni di presenze amiche, invocate nei momenti più laboriosi del parto. Se un bambino nasceva già morto, l’ostetrica lo battezzava veloce per assicurargli almeno il Cielo, lei che non gli aveva potuto assicurare la terra. Una notte, ’a mammana fu chiamata per un parto difficile, chiamarono lei perché «nisciuno criatuto po’ mai muri’ c’ ’a mammana Miella» (nessun bambino rischia di morire con la mammana Miella). Le mani esperte della mammana fecero nascere un bambino molto prematuro, tanto piccolo che ’a Miella lo avvolse in una camicina di ovatta, lo depose in una scatola di scarpe, e mormorò: «mo’ aspettammo ’o vulere e Dio» (adesso attendiamo il volere di Dio). Pianse di gioia insieme alla mamma quando si accorse che ’a creatura (il neonato) iniziò piano a riprendere colore. Esercitò durante la guerra e fece nascere molti bimbi già orfani alle cui madri lasciava, sotto al cuscino, di che pagare il farmacista e comprarsi una fetta di carne, diceva che era il modo migliore per fare latte. Aiutò molte donne che partorirono senza avere marito e invocò i Santi anche per loro: «santo Nicola, vottalo fore! San Vincenzo ’ra Carità, lascia e muonace e viene ccà» (san Nicola, fallo nascere! San Vincenzo della Carità, lascia i monaci e vieni qua). Dopo averne tutelato la vita e la salute, capitò che dovesse tutelarne l’onore ed il futuro: portava il bambino all’Annunziata, e “ricuciva” la giovane madre così da regalare a futuri mariti la convinzione di essere i primi. La mammana asciugò lacrime e diede consigli, ma non giudicò mai, perché sapeva che il peccato era figlio della guerra. Una sera, ’a Miella fu ostetrica e nonna insieme: nasceva suo nipote, e con l’altra nonna, Carulina ’a gravunara, (Carolina, venditrice di carbone) assisteva sua figlia Anna che partoriva. Quel parto non fu difficile, ma nonna Carolina era ancora in lutto per la morte di suo marito, nonno Nicola, detto ’o surdo (il sordo), perché come quasi tutti gli operai dei cantieri navali di Castellammare, aveva perso l’udito per il troppo rumore ed era morto giovane per le troppe vernici inalate. Quella notte nacque ’na femmenella (una bambina), e ’a mammana Miella la mostrò compiaciuta all’altra nonna, dicendo «è nata Carulina», ma Carulina ’a gravunara non volle quel nome: «cummà, vulesse campà n’atu ppoco» (comara, vorrei virere ancora). Nonno Nicola aveva fatto in tempo a conoscere il nipotino Nicola, e aveva mormorato: «nasce Nicola, more Nicola». E così era stato. Così, quella notte, la mammana guadagnò una nipotina di nome Lucia, e ci furono ancora preghiere e raccomandazioni: «ova a zuppetella co’ ’e cepolle e ’a birra, pe’ fa’ scennere ’o latte» (zuppa di uova con cipolle e birra, per fare latte).




Non solo “spine”

Arbacia lixula (foto di Fabio Russo)




Finalmente è giunta l’estate e porta con sé molti piatti tipici. I ricci di mare (phylum Echinodermata) sono un piatto prelibato e assai apprezzato nella stagione calda. Ma quante volte abbiamo sentito che “si mangia solo il riccio femmina”? Eppure i ricci di mare non presentano dimorfismo sessuale: in realtà il “riccio maschio” e il “riccio femmina” sono specie diverse ascrivibili a diverse famiglie. Il primo, comunemente chiamato riccio nero, è Arbacia lixula (Linnaeus, 1758) appartenente alla famiglia Arbaciidae, mentre il secondo, il riccio viola, è Paracentrotus lividus (Lamarck, 1816) della famiglia Parechinidae. Dunque, la convinzione che la scelta gastronomica si basi sul sesso è errata. La preferenza per P. lividus è dettata dalla presenza, in questa specie, di gonadi più cospicue. I ricci regolari presentano cinque gonadi ciascuna delle quali è posizionata lungo il lato interno dei raggi interambulacrali, in P. lividus le gonadi, che si presentano di colore arancione, sono molto più ingrossate rispetto a quelle dell’erroneamente definito “riccio maschio”. A complicare le cose in lingua napoletana la specie commestibile Paracentrotus lividus è chiamata ancina mascula, mentre Arbacia lixula è l’ancina femmena.


Paracentrotus lividus (foto di Fabio Russo)




Il sanguinaccio: storia e preparazione

Dolce della tradizione carnevalesca napoletana, il sanguinaccio è una crema al cioccolato a base di sangue di maiale che accompagna le più note chiacchiere (strisce di pasta frolla fritte cosparse di zucchero).
La preparazione del sanguinaccio è abbastanza complessa e inizia nel momento in cui viene scannato il maiale, cioè quando si recupera l’ingrediente principale: il sangue.
Il sangue, infatti, si raccoglie in un capiente contenitore e si mescola con movimenti rapidi e continui al fine di evitare che si quagli (coaguli), diventando denso e grumoso; ciò avviene talmente in fretta che quando non si aveva a portata di mano un mestolo, lo si doveva «manià co le mmane» (Cavalcanti, 1844). Il movimento circolare a cui si sottoponeva il fluido ematico impediva infatti la formazione della fibrina che, imbrigliando le cellule, avrebbe formato un unico blocco di sangue rappreso.
Benché il sangue imbottigliato mantenga intatte le sue caratteristiche organolettiche, oltre alle sue qualità nutrizionali, per circa 10 giorni, si riteneva che la crema migliore fosse quella preparata con sangue fresco; con un «puorco (co revereuzia parlanno) e de chillo tanno scannato» (Cavalcanti, 1844).
La ricetta del sanguinaccio è stata trascritta diverse volte nel corso del tempo e sebbene siano riportate delle differenze tra le varie versioni, tutte convenivano che bisognasse mescolare a fuoco lento i seguenti ingredienti, aggiunti rigorosamente tutti insieme: sangue, cioccolato, zucchero, cedro e cannella.

miette ogne ncosa dint’a na cazzarola, e co na cucchiara vuote sempe, comm’avisse da fa la crema (Cavalcanti, 1844)

Nel Settecento, però, il cuoco e letterato napoletano Vincenzo Corrado, nell’opera Il cuoco galante, spiega come si puntasse alla cremosità del sanguinaccio, aggiungendo alla ricetta canonica “panna di latte”, e all’esaltazione del cioccolato con “aranci canditi triti” (Corrado, 1773). Nel 1800 invece si cercava d’incrementare il sapore del dolce, più che la cremosità. Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, letterato appassionato di gastronomia, in Cucina teorico-pratica agli ingredienti base aggiunge alla ricetta «no grano de carofano fino, […] meza libbra de mustacciuolo pesato», ma non nomina la panna tanto importante per Corrado.

Sanguinaccio “senza sangue” (foto asciacatascia)

Nell’800 era solito conservare il sanguinaccio «dinto a lle stentina de puorco» (Cavalcanti, 1844), avendo premura di non riempirli troppo, rischiando così la rottura. Questo insaccato dolce era poi immerso in acqua calda e lasciato bollire pochi minuti, il tempo necessario a far cuocere l’intestino e, una volta pronto, si tamponava con stracci per asciugarlo e infine conservato. Poco prima di essere mangiato lo si poneva su carta unta di nzogna e si riscaldava per ravvivarne il gusto (Cavalcanti, 1844).
Il sanguinaccio ottocentesco di Cavalcanti riprende la ricetta del ’700 in cui però l’acqua di cottura era arricchita con foglie di alloro, sale e cannella (Corrado, 1773), tutti ingredienti che nel XIX secolo sono già parte della crema.

Bibliografia

  • Ippolito Cavalcanti, La cucina teorico-pratica, ovvero, Il pranzo periodico di otto piatti al giorno, Napoli, Stamperia e cartiere del Fibreno, 1844.
  • Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, Napoli, Stamperia Raimondiana, 1773.

Immagini

    • in testata: porco pelatiello, anche conosciuto come nero casertano (foto di Ciro Viaggio)



Gli animali del presepe: le pecore

Gli animali più rappresentati nel presepe napoletano sono certamente le pecore, spesso distribuite in diverse greggi guidate da pastori.

La loro simbologia è spesso collegata al pastore Benino, raffigurato come dormiente e posizionato in alto. Si pensa che il presepe stesso sia la rappresentazione onirica del viaggio di salvezza di Benino verso il Signore, e le pecore poste vicino a lui, presenti sempre in numero dispari, di solito sette, rappresentano i vizi capitali di cui il pastore sta per liberarsi.

Più tradizionalmente la figura del pecoraio che guida il gregge simboleggia il dio Hermes che accompagna i defunti nell’Ade (psicopompo): una delle più tipiche raffigurazioni del dio Hermes, infatti, lo ritrae mentre porta un agnello sulle spalle. Le pecore, dunque, rappresentano le anime dei defunti: possono essere candide come le anime pure o sporche come i peccatori.

Immagini

  • in testata: pecora in terracotta, Napoli, XVIII-XIX secolo.



Gli animali del presepe: il bue e l’asino

Il bue e l’asino sono collocati nella grotta, simbolo del cosmo e spesso luogo in cui avvengono le iniziazioni. La grotta è elemento essenziale, ad esempio, nel culto di Mithra, che si celebrava in grotte naturali o in luoghi in cui venivano ricavati antri artificiali. La grotta è quindi una replica del cosmo, un luogo sacro e segreto, riservato agli iniziati e non accessibile ai profani.

L’asino, in molte culture tradizionali, è emblema dell’oscurità, di tendenze sataniche: in India è la cavalcatura di Nairrita, una divinità funesta, guardiano della regione dei morti; in Egitto l’asino rosso è una delle entità più pericolose che l’anima incontra nel suo viaggio dopo la morte. Nelle scritture cristiane, l’asino sembrerebbe avere una valenza positiva nel presepe e nell’episodio dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, ma l’esoterista René Guénon osserva che, nel presepe, esso si contrappone al bue come le tendenze malefiche si contrappongono a quelle benefiche e, nell’ingresso di Cristo in Gerusalemme, interpreta il ruolo delle forze malefiche vinte dal Redentore. Il confronto tra elementi malefici e benefici si ritrova anche nella crocifissione, con l’episodio del buono e del cattivo ladrone. L’asino è anche la “bestia scarlatta” dell’Apocalisse e rappresenta l’elemento istintivo dell’uomo, la natura inferiore dell’individuo, un’esistenza che si svolge unicamente sul piano terrestre e sensuale.
Durante il Medioevo, si celebravano due feste dedicate a questo animale: la “festa dell’asino” in cui l’asino veniva fatto entrare addirittura nel coro della chiesa, ove occupava il posto d’onore e riceveva segni di venerazione, e la “festa dei folli”, «in cui il basso clero si abbandonava agli atti più sconvenienti, parodiando al tempo stesso la gerarchia ecclesiastica e la liturgia medesima. […] Questi ‘folli’ portavano d’altronde un copricapo a lunghe orecchie, manifestamente destinato a evocare l’idea di una testa d’asino]» (René Guénon, 1990).

Passando al bue, si tratta di un animale che, nei culti di molte tradizioni, è vittima sacrificale (si ricorda l’ecatombe, il sacrificio di cento buoi) e che è consacrato ad alcuni Dei: Apollo, ad esempio, aveva i suoi buoi che gli furono rubati da Ermes. In tutta l’Africa il bue è un animale sacro che si offre in sacrificio, connesso ai riti dell’aratura e della fecondazione della terra. Inoltre, come si può facilmente notare, il bue che apre il solco nella terra non è più sacrificato, ma sacrificatore e diviene, in questo modo, anche simbolo del sacerdote, cioè di colui che compie atti sacri in un culto. Il bue è, per certi versi, analogo al toro, il quale era considerato principio generatore: in Egitto, il bue Apis era il simbolo della fertilità e della fecondità e il toro fu anche un animale totemico per i popoli italici di lingua osca che scendevano lungo le dorsali appenniniche nel rituale del Ver Sacrum.

Il discorso su questa coppia simbolica è legato a significati iniziatici ed esoterici: quando l’uomo inizia a compiere un lavoro su di sé entra in conflitto con la sua sensualità, cioè con l’elemento istintivo del suo essere. L’iniziato è colui che riesce a dominare questa energia, ma non la reprime, generando, in sé, una nuova forma di esistenza. I due animali, soffiando sul Bambino, lo scaldano con il loro soffio vitale. Le energie di questi due animali sono quindi vitali e non entrano in conflitto tra di loro, ma bisogna continuamente dominarle per percorrere un cammino iniziatico. Non è casuale che si trovino, infatti, proprio nella scena della Natalità, quindi all’inizio di una nuova Vita.

Bibliografia

  • Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1986.
  • René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1990 («gli Adelphi», 16).

Immagini

  • in testata: particolare della Natività di Giotto (Basilica inferiore di Assisi)
  • in evidenza: particolare dell’Adorazione dei pastori di Domenico Ghirlandaio(1480 – Firenze, Santa Trinita).