Il toro: bestia altera dall’impeto indomabile

«Bestia altera dall’impeto indomabile» (Teogonia, 832), simbolo di forza e vigore per tutte le culture più antiche, il toro si ritrova anche alle origini della nostra civiltà: è sotto le sembianze di un toro bianco che Zeus rapisce Europa, figlia di Agenore, re di Tiro. Il toro, dall’aspetto vigoroso e pesante, è anche caratterizzato da un’abbondante massa ventrale. La sua forma, sviluppandosi principalmente in orizzontale, gli conferisce caratteristiche molto femminili, non a caso il segno zodiacale del Toro (21 aprile-20 marzo), è governato da Venere e nella cultura matrifocale dell’Europa Antica, il bucranio era ritenuto l’organo riproduttivo femminile, laddove il muso simboleggiava l’utero e le corna le ovaie. A causa delle sue corna possenti e della sua massa cranica robusta e solida, simboleggia anche la forza istintiva e selvaggia. È un’impresa ardua domare la sua foga: ci riesce soltanto la divinità indù Shiva quando cavalca il toro bianco Nandȋ e tramuta il suo impeto disordinato in ordine cosmico. L’impetuosità e la forza quasi incontenibile di questo animale sono utilizzate da tutti i popoli per simboleggiare la virilità del maschio e la sua infaticabile fertilità.

Fatica di Ercole contro il toro (lastra architettonica in terracotta, fine I a.C. prima metà I dC, Musei Vaticani)

Il toro è venerato da innumerevoli popoli, ora come simbolo di forza, ora come simbolo di fecondità. Il suo muggito è associato al tuono tanto che in Asia centrale, Mongolia, Siberia e tra gli Yakuti si crede che vi sia un toro che riposa sul fondo delle acque e che il suo muggito preceda ogni temporale (Chevalier e Gheerbrant, 2016). Il toro è simbolo della divinità ebraica El che, sotto forma di statuetta bronzea, è apposta sulla sommità di un bastone. Rappresenta nelle religioni mediterranee, gli Dei celesti come Urano, divinità fecondatrice e sposo di Gea. Di molte divinità celesti dai tratti taurini, non si venera tanto il carattere trascendentale quanto la potenza fecondatrice. Rudra del Rig Veda, divinità celeste che fertilizza i campi con il suo seme, è rappresentato da un toro, così come Indra, Dio vedico e signore dei fulmini e delle piogge. Dunque, non è raro assistere all’evoluzione delle divinità celesti in divinità fecondatrici, raffigurate come possenti tori, e caratterizzate dalla ierogamia con la Madre Terra. Questo stretto legame Toro-cielo-Madre Terra è presto spiegato: nel cielo, luogo dove “muggisce” il tuono, risiede la divinità fecondatrice, dai tratti taurini e virili, il cui “seme”, la pioggia, cade e feconda la terra. Assistiamo alla metamorfosi della divinità celeste da deus otiosus, chiuso nella sua perfezione e non partecipe della vita terrena, a deus pluvius: le divinità cosmogoniche abbandonano la funzione generatrice dell’universo per trasformarsi in divinità fecondatrici strettamente legate alla figura di una divinità femminile (Eliade, 2007). Altrettanto forte è il legame che si instaura con la Luna, elemento che regola il dominio delle acque. Il sistema simbolico Luna-Acqua-Terra riguarda l’ambito della fecondità. La figura del toro spesso è associata alle divinità lunari: le corna taurine rappresentano per molti popoli la falce lunare: è di nuovo il caso di Shiva, che porta sul capo un corno perfetto, ierofania della Luna. L’associazione Toro-Luna si nota in molte altre civiltà antiche: la divinità lunare egizia Osiride è raffigurata sotto forma di toro; presso i Persiani, la luna è chiamata Gaocithra, cioè conservatore del seme del toro; anche Venere, dea della fertilità, di notte si trova nel segno del Toro, con la luna in esaltazione (Chevalier e Gheerbrant, 2016).
L’evocazione di virilità che risiede nel Toro, lo porta a riconoscersi anche nel Sole, infatti il toro è associato a Mithra, divinità solare di origine iranica, il cui culto prevede che ogni 25 dicembre si celebri la rinascita del Sole (Natalis Solis) proprio sacrificando un toro.

Mitreo di Santa Maria Capua Vetere

Alla luce di questa nuova simbologia, ecco che il toro è portatore di significati apparentemente antitetici, ma in realtà complementari. È un animale lunare poiché legato ai riti della fecondità ed è un animale solare per il suo temperamento focoso. Ricordiamo il Minotauro, nato dall’unione di Pasifae (Luna) con un bellissimo toro e messo a guardia di un labirinto. Ogni otto anni, il re Minosse donava in sacrificio sette fanciulli e sette fanciulle, probabilmente per rinnovare, con il favore di Zeus, il proprio dominio sulla città di Creta. Secondo alcune versioni, questi giovani vergini erano destinati al temibile mostro, secondo altre, erano offerti a Talos, gigante di bronzo posto a guardia della città, a volte descritto con le sembianze di un toro e altre con quelle del sole (Frazer, 1973).
Sempre a Creta, attorno alla figura del toro gravita uno sport spettacolare definito taurocatapsia: una sorta di danza acrobatica ricca di capriole eseguite sul dorso di un toro. I giovani cretesi si esibivano nelle arene minoiche in prove di destrezza e abilità fisica misurandosi contro l’indomita bestia. Questa pratica, esercitata nel 3000-1500 a.C. era probabilmente un rituale per omaggiare il possente animale. Ben diversa è la tauromachia, la lotta uomo-toro, di cui si parlerà in altra sede. È bene, però, iniziare a precisare che questo tipo di lotta non è circoscritto alla sola Grecia antica: non è da escludere che la corrida, simbolo nazionale spagnolo, possa essere legata alla tauromachia ellenica. È anche plausibile che questi spettacoli non fossero semplici sport popolari ma un antico retaggio del culto neolitico della Dea Madre, legato al periodo della cultura matrifocale, praticato sia nella penisola iberica che nella regione mediterranea. Del resto, già Sinclair Hood, in un libro uscito in edizione originale nel 1971, collegava la lotta uomo-toro a dei rituali della fertilità, per la nota valenza del toro in quell’ambito.

Taurocatapsia (Grande Palazzo, Cnosso, Creta)

Ciò che risalta in questi sport è che, come per l’efebia della Grecia Classica, vi è la glorificazione dell’eccellenza atletica, manifestata in imprese di cui gli Dei stessi erano testimoni.
Nella zona di Napoli, culla di civiltà e omphalos di storia, cultura e riti iniziatici, i giovani efebi, per giungere all’età adulta, dovevano superare una serie di prove in onore di Ebone, nume partenopeo dal corpo taurino e dal volto antropomorfo e barbuto. Il culto del dio-toro era una pratica segreta e misteriosa, destinata esclusivamente ai sacerdoti del dio, impegnati in una sorta di tirocinio dei giovani chiamato dai Greci “efebia”. Quest’ultima consisteva nell’educazione militare dei giovani liberi, a partire dai 18 anni di età, unita ad un’istruzione letteraria e musicale, perfettamente inserite nella sfera religiosa e integrate con l’interesse agonale. Il culto di Ebone era presieduto da un collegio di sacerdoti: alcuni membri rivestivano la carica di laucelarchi, ruolo probabilmente comparabile a quello dei demarchi che, secondo Capasso (1905), erano riconducibili a figure devote a Dioniso.
Ebone è raffigurato nel gruppo scultoreo della Partenope, posizionato sulla facciata principale del Real Teatro di San Carlo, eppure, secondo il grecista Martorelli, il toro androprosopo e la stessa dea Partenope potrebbero essere le divinità meno autoctone. Il culto di Ebone potrebbe essere di origine fenicia, importato a Napoli dai coloni d’oriente, mentre la divinità fondatrice della città presenta alcuni interessanti punti in comune con Lilith Partenope e, ancor di più, con la dea Tanit, rispettivamente presenti nell’antica mitologia mesopotamica e in quella cartaginese.

Sembrerebbe, inoltre, che Ebone sia stato una divinità privilegiata. Capuccio, in Storia di Napoli, riporta un’iscrizione greca che omaggiava il nume Ebone con l’epiteto di eccellentissimo: НВОΝІ ΕΠΙΦΑΝΕΣΤΑΤΩ ΘΕΩ (Ebone, dio eccellentissimo, o dal magnifico fulgore). Tale superlativo era, solitamente, riservato solo a divinità quali Zeus, il Sole, la Luna, Asclepio e la Buona Salute (Napolitano, 1978). Secondo diversi studiosi, tra cui Capasso, Ebone potrebbe essere la raffigurazione di Bacco (o Dioniso), figlio di Zeus e di Semele, spesso raffigurato come toro. Bacco, Dio dell’ebbrezza, del fervore, degli eccessi, rappresenta la congiunzione tra il mondo divino e quello terreno. Non è un caso che tra le vittime sacrificali immolate al Dio vi sia un animale prolifico come il toro: Bacco, infatti, è anche Dio della vita e della vegetazione, signore della fecondità umana e animale.
Anche Ebone, nonostante la folta barba, potrebbe identificarsi come dio della gioventù e, con molta cautela, si potrebbe ipotizzare che il nome di Ebone sia il corrispettivo maschile di Ebe, dea della giovinezza, spesso associata a Dioniso. In effetti, dal nome della dea deriva il termine “efebo” che traccia un collegamento con la succitata pratica greca dell’efebia.

Moneta napoletana raffigurante Partenope e sul verso Ebone (ca. 300 a.C.)

Ebone è raffigurato sul retro di una moneta campana, la zecca di Cales, spesso sovrastato da un astro o in procinto di essere incoronato dalla dea alata Vittoria (Ruotolo, 2010). Questo astro, molto probabilmente il Sole, spinge a riflettere ancor di più sulla possibile identificazione di Ebone con Bacco. Del resto, l’espressione “lucido astro” (fosfòros astèr) venne già usata da Aristofane per identificare il Dio dell’ebbrezza.  Dunque, è verosimile che il Sole sul dorso del toro androprosopo non sia stato aggiunto come ornamento ma come riferimento manifesto a Bacco.

Ciò che emerge senza alcun dubbio è la continua associazione tra la figura del toro e il simbolo del Sole. Questo ci spinge a riflettere, ancora, sulla simbologia del toro come garante di immortalità e potenza biologica. A tal proposito, si è già potuto constatare quanto l’animale sia sacro a numerose divinità uraniche e che molti riti, incentrati sulla morte e la resurrezione a nuova vita, sono incentrati su questo animale e, in particolare, ruotano attorno al taurobolo. Oltre al già citato culto di Mithra, a Roma, anche Attis, Dio della vegetazione, muore e rinasce periodicamente. La sua celebrazione avviene in primavera e, non a caso, attraverso l’uccisione di un toro, animale terrestre strettamente legato ai pascoli, capace di lavare via, con il suo sangue, ogni peccato terreno. I testicoli del toro hanno un’importante funzione nel rituale, poiché il seme, ivi contenuto, è in grado di donare fertilità e promuovere le nascite.
Ma oltre ad essere un animale uranico, il toro è anche ctonio: è epifania del cielo o della terra. In quasi tutta l’Asia il toro nero è connesso al mondo dei morti. I Tatari dell’Altai, ad esempio, sacrificano tori e vacche al Dio degli inferi, sovente rappresentato in groppa ad un toro nero, che cavalca al rovescio, brandendo un’ascia a forma di luna.
La potenza uranica si manifesta in pieno nel “fratello intero” del bue proprio nel momento in cui il toro si contrappone al “pio bove” (Levi, 1984). Il bue, simbolo di lentezza, grossezza, tranquillità, è ugualmente legato ai campi e ai culti agrari. Ma nel bue, la soppressione del potere fecondatore e incontrollato fa risaltare, per contrasto, la sessualità libera ed indomita del toro: la castità mette in luce l’importanza della sessualità. Proprio così, manifestandosi o negandosi del tutto, il principio attivo uranico esprime, nel toro, la sua forza in maniera assoluta: libero feconda, represso non genera vita.

 

Bibliografia

  • Aristofane, Rane, 343
  • Capasso Bartolomeo, Napoli greco-romana, Napoli, Società napoletana di storia patria, 1905.
  • Chevalier Jean e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, Milano, BUR Rizzoli, 2016.
  • Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
  • Frazer James, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino, Bollati Boringhieri, 1973.
  • Hood Sinclair, La civiltà di Creta, Roma, Newton Compton, 1981.
  • Levi Primo, Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 1984.
  • Napolitano Felicia, Napoli e il culto del dio Ebone, Antiqua, Anno III, n. 9, 1978.
  • Pozzoli Giovanni, Dizionario storico-mitologico di tutti i popoli del mondo, vol. II, Milano, Batelli e Fanfani, 1820.
  • Ruotolo Giuseppe, Corpus nummorum Rubastinorum, Bari, Edipuglia, 2010.

Sitografia

Immagini

  • in testata: Toro Farnese (Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Inv6002 n02).
  • in evidenza: Europa sul toro salutata dalle compagne (affresco 20-25 d.C. ca., Pompei, Casa di Giasone – Museo Archeologico Nazionale di Napoli).



A spese altrui

Gasterophilus sp. è un dittero appartenente alla famiglia Oestridae, noto in napoletano con il termine cruosco [Soppelsa, 2016]. Allo stadio larvale è parassita di equidi domestici e selvatici e vive adeso alle pareti intestinali del suo ospite attraverso alcune parti boccali dette prime mascelle (massille) che sono anche criterio diagnostico per l’identificazione delle nove specie del genere.
Le prime informazioni sulla presenza di Gasterophilus in Campania risalgono al XVI secolo quando il nobile napoletano Pasquale Caracciolo pubblicò nel 1566 La gloria del cavallo.
Nel testo la larva è indicata genericamente come verme mentre il termine taffano si riferisce alla sua forma adulta. Molto ben descritto invece il comportamento irrequieto che caratterizza i cavalli parassitati da Gasterophilus; informazioni disseminate in tutto il testo e dalle quali si evince che l’animale non è più gestibile nemmeno dal suo cavaliere perché quando le mosche «sogliono penetrare sotto la coda o sotto il ventre», il cavallo scalpita e nitrisce, infastidito dal prolungato ronzio. Per allontanare le mosche dalla stalla Caracciolo suggerisce un mazzetto di peli di cavallo legati sulla porta oppure «la cenere de’ peli presi dalla testa del cavallo, mettendosi con aceto e con la lana ristringe ogni scorrimento di sangue», metodo che l’autore fa risalire a Plinio.

I peli cavallini legati in un mazzetto in sù la porta non vi fanno entrar taffani, né quelle mosche, le quali si dicono cavalline. Caracciolo, 1566

Nel 1699, il napoletano Giovanni Battista Trutta pubblicò l’opera Novello giardino della prattica ed esperienza, un vero e proprio trattato sul cavallo che comprendeva anche le malattie e le relative cure. Trutta testimoniò quanto fosse diffuso e pericoloso Gasterophilus per gli allevamenti equini.

Che io avendo fatto aprire più di un cavallo infetto da questo pestifero morbo, non vi ho trovato membro che non fusse offeso. Trutta, 1699

L’erudito napoletano elenca tutta una serie di rimedi per eliminare le larve dall’apparato digerente, tra cui far bere al cavallo tutte le mattine a digiuno un infuso: «E per ammazzare quelli, che sono nello stomaco, dateli la mattina alla digiuna, con mezza misura di biada, o caniglia, due oncie di corallina, o di sementella (e ciò per due, o tre mattine) ed oncie due di solfo, ed oncia mezza di polvere di centaura minore, e mezz’altra di cardo benedetto, che li farà andare morti» [Trutta, 1699].

O pure dateli corno di cervo abbrugiato, con semente di portolaca, e di foglia, e sementella, ana oncia una, quale darete con l’acqua di gramegna, che questa ammazza tutti li vermi. Trutta, 1699

Non mancano nemmeno descrizioni sulla fase larvale di Gasterophilus, indicati come lombrichi corti, e grossi, e larghetti, e di colore rossigno, che alcuna volta suole essere peloso. La larva del dittero non ha veramente dei peli ma spine cuticolari mobili con le quali si sposta nel tratto digerente del suo ospite. Infatti, durante la fase larvale, Gasterophilus occupa nell’ordine: bocca, stomaco o intestino e infine il retto del cavallo. La larva passa nell’ospite circa otto mesi e per questo il ciclo vitale è considerato annuale.

uovo di Gasterophilus sp. su pelo di cavallo

Uovo di Gasterophilus sp. su pelo di cavallo (da cal.vet.upenn.edu).


L’adulto invece vive cinque giorni, tutti dedicati all’accoppiamento e alla deposizione delle uova, che avviene direttamente sull’ospite, soprattutto sugli arti e sui fianchi. Il cavallo, indotto a leccarsi per il prurito causato dall’atto della deposizione delle uova, le introduce nella cavità orale, dove si schiudono e danno inizio al ciclo vitale del parassita.
Gli studi degli ultimi dieci anni stanno analizzando la morfologia dell’adulto, che apparentemente è quella di un qualsiasi dittero. Tuttavia si sta osservando una progressiva atrofizzazione dell’apparato boccale, in quanto resta inutilizzato durante la settimana di vita dell’adulto. Altri studi si sono invece orientati sull’analisi del ruolo ecologico di Gasterophilus, di cui non si sa praticamente nulla, ma che potrebbe essere importante al fine di ricercare un «nemico» naturale per eliminare questi ditteri in modo da non dover più utilizzare larvicidi dannosi per l’ambiente.
Gasterophilus non è quindi tra gli animali scoperti più di recente, anzi notizie se ne ritrovano anche in testi di Aristotele e Plinio il Vecchio, ma di certo solo negli ultimi anni il dittero non è più visto solo come un problema, ma anche come soggetto meritevole di studi da parte di zoologi ed ecologi.
 

Bibliografia

  • Nicola Capasso, I sonetti in lingua napoletana di Niccolò Capassi primario professor di leggi nella Regia Università di Napoli […], a cura di Carlo Mormile, 2 voll., s.l., s.e., 1789.
  • Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo […], Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1566.
  • Cogley T.P., Cogley M.C., 2000, Field observations of the host-parasite relationship associated with the common horse bot fly, Gasterophilus intestinalis, «Veterinary Parasitology», 88(1-2): 93-105.
  • Donald M. McGavin, James F. Zachary, Patologia Veterinaria Sistematica, 4th edition, Elsevier, 2010.
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.
  • Giovanni Battista Trutta, Novello giardino della prattica, et esperienza […] divisa in tre libri […], Napoli, Novello de Bonis, 1699.
  • Violeieda 1788: La Violejeda spartuta ntra buffe e bernacchie pe chi se l’ha mmeretate. Soniette de chi è ammico de lo ghiusto, Napoli, Giuseppe Maria Porcelli, 1788 («Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana», XXII), pp. 1-104; ed. moderna La violeieda spartuta ntra buffe e bernacchie, a cura di Carlachiara Perrone, Roma, Edizioni Benincasa, 1983 («Testi dialettali napoletani. Collana diretta da Enrico Malato», XVII).

 

Immagini

  • in testata: Varie fasi del ciclo vitale (Gasterophilus): imago (a), uova (b) e stadi larvali (c, d, e)
  • in evidenza: Gasterophilus intestinalis (foto di Janet Graham, wikipedia).



Agnano e il lago scomparso

Attorno alla città di Napoli si articola un immenso campo vulcanico, ricco di crateri e di rilievi dalle forme coniche, paralleli alla linea di costa, che fanno dunque da ripartitore naturale delle acque meteoriche sul territorio. La Conca di Agnano è uno di questi crateri, situato tra quello degli Astroni e la Solfatara, e appartenente al sistema dei Campi Flegrei. Per la particolare conformazione geologica del territorio partenopeo le acque piovane trovano scolo direttamente lungo il litorale, ma se incontrano avvallamenti vi si raccolgono formando veri e propri bacini. Sembra che questo sia ciò che si è verificato ad Agnano per la formazione dell’omonimo lago.

Il lago di Agnano (Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794)

Il lago di Agnano (Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794)


 
La data di origine è ignota, si fa risalire la formazione del bacino tra X e XI secolo, supponendo dunque che la sua esistenza abbia occupato circa otto secoli. La superficie era di 924020 m2 e la profondità media annuale di 12 m, secondo quanto desunto da una proposta di legge del 15 febbraio 1865 presentata dal Ministro d’Agricoltura, Industria e Commercio. La costituzione del lago cambiò l’assetto geologico del territorio, sommergendo parte della piana dove era stato costruito in epoca romana un grande edificio termale; il complesso, non più alimentato dai soffioni, andò in rovina, ma l’attività termale persistette lungo i fianchi della collina, dove fu stabilita la struttura detta “sudatorio di Agnano” o “stufe di San Germano”. Attraverso dei sentieri che si ramificavano intorno al lago era inoltre possibile raggiungere una serie di grotte in cui si assisteva al fenomeno vulcanico delle mofete, emissioni calde di gas di acido carbonico; tra esse era nota la Grotta del Cane.

La grotta del Cane e sulla sinistra il lago di Agnano (acquaforte aquerellata tratta da Sieur de Rogissart, Les délices de l'Italie [...], Volume 3, Leida, Pierre Vander Aa, 1706).

La grotta del Cane e sulla sinistra il lago di Agnano (acquaforte aquerellata tratta da Sieur de Rogissart, Les délices de l’Italie […], Vol. III, Leida, Pierre Vander Aa, 1706).


 
Le acque del lago apparivano torbide e melmose, tanto che si pensava non ci fosse forma di vita nei suoi flutti. Al contrario è stata riportata da Oronzio Gabriele Costa la presenza di pesci quali la tinca Tinca tinca (Linnaeus, 1758) e di numerosi crostacei. Presenti sul luogo anche uccelli acquatici, come la folaga Fulica atra (Linnaeus, 1758), che alimentavano le attività venatorie.

folleche Agnano e ranonchie Sebeto Pagano, 1746

L’origine del nome è controversa. Un’ipotesi fa risalire Agnano ad Anguiniano e quindi al latino Angues, poiché il lago si diceva popolato da serpenti. Dal momento che nei pressi del bacino erano collocate delle terme chiamate Angulane, il letterato italiano Camillo Pellegrino nella sua opera Apparato alle antichità di Capua ovvero discorsi della Campania Felice, scritta nel 1651, ha attribuito ad esse l’origine del nome. Altri affermano che Agnano derivi da Agnisco, che in greco vuol dire purificare, riferendosi all’attività di maturazione del lino. La teoria più accreditata è quella ipotizzata nel 1874 da Giovanni Flechia, professore di lingue della Regia Università, e confermata poi nel 1931 da Raimondo Annecchino nel suo libro, ossia che Agnano derivi da Annianum, fondo di proprietà della nota famiglia Annia di Pozzuoli.

I fenomeni  naturali derivanti dall’attività vulcanica che si manifestavano nelle acque del bacino alimentavano la fantasia popolare. Un aneddoto racconta che i frati Gesuiti avevano architettato uno stratagemma per evitare che i questuanti Cappuccini sottraessero loro risorse del lago. Per cui quando i Cappuccini chiedevano in elemosina rane il pescatore doveva riferire di aver pescato solo tinche, quando i frati chiedevano tinche avrebbe dovuto dichiarare di avere solo rane. Nel caso in cui fossero state chieste tinche e rane avrebbero esibito un “mostro” con il corpo per metà tinca e per metà rana. La prova di tale miracolo divino fu smascherata a Milano, quando Antonio Vallinsieri affermò che l’esemplare consisteva semplicemente in un girino.

Fra Bagnuoli e Fuori grotta vi è alla mano sinistra la strada che conduce nel Lago di Agnano. Questo è di figura circolare e gira due miglia circa. Resta in fondo di un cratere che presenta la bocca di un antichissimo estinto vulcano. Alcuni hanno immaginato esservi stata una città. Palatino, 1826

Le credenze popolari non impedirono però lo sfruttamento del sito, e nel 1451 Alfonso I d’Aragona spostò l’attività di macerazione della canapa nel Lago di Agnano. Precedentemente tale attività era svolta nelle cosiddette parule, acquitrini che si formavano per azione delle acque meteoriche che dai versanti scaricavano direttamente nel golfo di Napoli. Le operazioni di macerazione rendevano però l’aria malsana e invivibile, fu per questo che si pensò di deputare il cratere di Agnano a questo scopo, così come era già stato fatto per il Lago Fusaro, liberando il centro della città dalle esalazioni maleodoranti. Le mannelle di canapa venivano così poste in prossimità della riva, affossate con delle pietre e lasciate macerare finché non raggiungevano la consistenza desiderata.

Agnano sulla sinistra l'area in cui era presente il lago (inizi XX sec.).

Agnano sulla sinistra l’area in cui era presente il lago (inizi XX sec.).


 
Inizialmente questo non causò problemi al lago, ne è testimonianza il banchetto ivi organizzato nel 1452 da re Alfonso per il matrimonio di sua nipote Eleonora con Federico III d’Asburgo. Successivamente però il problema dei miasmi si ripropose nell’area flegrea, rendendo l’aria irrespirabile soprattutto nella stagione estiva. Tra le testimonianze storiche sulla insalubrità della zona si ricorda la richiesta dei Padri Cappuccini del Convento di San Gennaro a Pozzuoli, che a causa del perdurare delle febbri malariche chiesero al Municipio una zona di terreno per edificare la sede della loro dimora estiva, costruita poi sulla collina dei Camaldoli.

Balneum Sudatorium (Stufe di San Germano).


 
L’attività di macerazione fu così abolita poiché si pensava fosse responsabile di problemi di salute pubblica. Nel 1861, fu approvato il decreto per il prosciugamento del Lago di Agnano, spostando l’attività di macerazione della canapa alla foce dei Regi Lagni.

I lavori di bonifica iniziarono nel 1865 e proseguirono fino al 1870 con il prosciugamento del bacino. L’intervento constò di due fasi: fu costruito un emissario che passando sotto il Monte Spina scaricava le acque del lago direttamente nel mare di Bagnoli, successivamente il fondo del bacino fu riempito per colmata, poiché la differenza di livello rispetto al piano dell’emissario non permetteva il deflusso delle acque.

La bonifica ebbe però un effetto secondario del tutto imprevisto: grazie al prosciugamento, infatti, furono portate alla luce decine di sorgenti termali che tappezzavano il fondo del lago e che ora, liberate dalle acque che avevano alimentato per centinaia di anni, sgorgavano e ribollivano nuovamente dal suolo. Tale episodio fu per anni trascurato, fin quando non si pensò di dare nuova vita alle strutture termali che in epoca romana erano così fiorenti.

Le terme di Agnano

Le terme di Agnano


 
Oggi le terme di Agnano sono una realtà a beneficio non solo degli abitanti dei Campi Flegrei, ma anche di una moltitudine di turisti, attratti dalla bellezza della struttura e dalla possibilità di fare un tuffo nel passato, ammirando i resti archeologici dei tempi antichi.

 

Bibliografia

  • Benedetto Di Falco, Descrittione dei luoghi antiqui di Napoli e del suo amenissimo distretto, Napoli, Giovanni Battista Cappelli, 1589.
  • Camillo Pellegrino, Apparato alle antichità di Capua overo discorsi della Campania Felice, Napoli, Francesco Savio, 1651.
  • Ferrante Loffredo, L’antichità di Pozzuolo et luoghi convicini, Napoli, Antonio Bulifon, 1675.
  • Giuseppe Fiore, Il Lago di Agnano: una realtà distrutta e dimenticata, Napoli, RCE multimedia, 2013.
  • Lorenzo Palatino, Storia di Pozzuoli e contorni con breve tratto istorico di Ercolano Pompei, Stabia e Pesto, Napoli, Luigi Nobile, 1826.
  • Oronzio Gabriele Costa, Fauna del regno di Napoli ossia enumerazione di tutti gli animali che abitano le diverse regioni di questo regno e le acque che le bagnano […] Pesci, Napoli, Francesco Azzolino, 1850.
  • Paolo Casoria, Implicazioni sociali della lavorazione della canapa tessile (Cannabis sativa L.) nel territorio di Napoli, Delphinoa, 48 (2006), pp. 61-70.
  • Raimondo Annecchino, Agnano l’origine del nome e del Lago, Napoli, Tipografia Unione, 1931.

Immagini

  • in testata: il lago di Agnano, dipinto di Oswald Achenbach (coll. priv.).
  • in evidenza: Il lago di Agnano



Il cratere verde

All’interno dell’area vulcanica dei Campi Flegrei si profila il cratere degli Astroni, che con i suoi 247 ettari rappresenta uno dei polmoni verdi della provincia di Napoli, oggi Riserva Naturale gestita dal WWF.

La storia degli Astroni si intreccia con il panorama faunistico flegreo. A partire dal nome, che potrebbe derivare da asturium, astore (Accipiter gentilis), la cui caccia era molto praticata (Mormile, 1617). Loffredo lo fa invece risalire al nome latino per indicare gli storni (Sturnus vulgaris), un tempo molto presenti nel territorio. Altre interpretazioni  hanno invece origine folcloristica e mitologica; come quella di Summonte, che lega il nome Astroni agli strioni o stregoni che, stando ad alcune credenze popolari, praticavano nel cratere i loro riti magici. De Lorenzo e Riva associano invece l’etimologia del nome a Sterope, un Ciclope che viveva in quest’area.

L’ipotesi più accreditata però è che Astroni derivi da strunis, una felce che vi cresceva spontanea, descritta anche da Plinio nella sua Naturalis Historia (Giustiniani, 1797).

La Riserva Naturale degli Astroni occupa il fondo del cratere e i versanti interni dell’omonimo edificio vulcanico, ubicato nel settore nord-occidentale della conca di Agnano, nel territorio del comune di Pozzuoli. La genesi del vulcano risale a circa 3700 anni fa, tra l’eruzione della Solfatara e quella del vulcano di Averno, secondo datazioni di tipo radiometrico.

Locus est Neapoli ad quatuor millia passuum proximus, quam vulgo Listrones vocant.Facio, 1769

L’area fu inizialmente sfruttata dai romani per le sue fonti termali; nel 1217 vi si recò anche Federico II per curarsi da una malattia. Nel sedicesimo secolo si assistette alla trasformazione in tenuta reale di caccia ad opera di Alfonso I d’Aragona, che vi introdusse cinghiali (Sus scrofa), daini (Dama dama) e cervi (Cervus elaphus), recintando il periplo con le mura che ancora oggi si conservano sul bordo del cratere. Da allora, fino agli inizi dell’800, fu gestito come riserva reale di caccia.

Cacciatori con cani corso

Cacciatori con cani corso (Caccia di Ferdinando IV nel cratere degli Astroni, Philipp Hackert, olio su tela, particolare).


 
Per un breve periodo, dal 1698 al 1739, la tenuta fu di proprietà di privati; prima fu comprata da Giuseppe Antonio De Marino, che eliminò gran parte della vegetazione arborea per disporre di terreno coltivabile, poi fu ceduta dall’erede di quest’ultimo al Collegio dei P.P. Gesuiti. Carlo III di Borbone se ne riappropriò, trovandola però in grave stato di abbandono; tra il 1749 e il 1750 furono quindi condotti importanti lavori di restauro che interessarono il muro di cinta e la vaccheria, terminati i quali il sito fu ripopolato di flora e fauna.

È celebre tal sito per le feste datevi d’Alfonso d’Aragona nel 1452 in occasione di aver maritata Eleonora sua nipote con Federico III Imperadore. D’Ancora, 1792

Fu Ferdinando II il primo ad aprirlo al pubblico, nel 1830. Con la caduta del Regno delle Due Sicilie passò ai Savoia e subì una dubbia gestione forestale, con ampi tagli e introduzione di specie arboree estranee alla flora locale. All’inizio del Novecento il nuovo sovrano Vittorio Emanuele III ritenne troppo oneroso per le casse della Casa Reale continuare a sostenere le spese per la gestione e la manutenzione della tenuta, così nel 1919 gli Astroni, assieme ai beni demaniali in uso alla Corona, passarono a far parte dell’Opera Nazionale Combattenti. L’Ente sottopose l’area ad un forte sfruttamento agricolo.

Durante la Seconda Guerra Mondiale e negli anni del dopoguerra il sito fu occupato dalle truppe alleate e dai civili che fuggivano dai bombardamenti.

Un’antilope alcina (Taurotragus orix) nel viale della tenuta

Un’antilope alcina (Taurotragus orix) nel viale della tenuta.

All’inizio degli anni ’70 la tenuta fu affittata all’Amministrazione Provinciale di Napoli che durante la gestione consentì al Giardino Zoologico l’immissione di animali esotici, soprattutto ungulati, con l’intento di realizzare un parco faunistico. L’Amministrazione ricavò grossi introiti cedendo alcune aree degli Astroni ad altre attività quali lo sfruttamento boschivo e l’allevamento di lepri e fagiani. Questa gestione sconsiderata, affiancata all’accesso incontrollato delle autovetture, portò a notevoli cambiamenti della vegetazione.

Il cratere fu chiuso in seguito al terremoto degli anni ’80 per motivi di sicurezza e passò, con l’abolizione dell’Opera Nazionale Combattenti, alla Regione Campania. Nel 1987 il Ministero dell’Ambiente promulgò una legge statale che istituì il vincolo di Riserva Naturale dello Stato degli Astroni e ne affidò la gestione al WWF, che aprì l’Oasi al pubblico nel 1992.

Mezzo miglio distante dal lago di Agnano vi sono gli Astruni; luogo delizioso da caccia Reale […]. Nel bosco vi pascolano cinghali, cervi e ogni sorta di volatili.Palatino, 1826

L’area conserva un mosaico ambientale di notevole complessità e una composizione floristica che è il risultato di un particolare fenomeno denominato inversione vegetazionale.

Tale fenomeno, imputabile alle particolari condizioni microclimatiche create dalla presenza dei tre piccoli laghi e dalla conformazione dello stesso cratere, fa si che si instaurino temperature meno elevate sul fondo, dove si hanno ristagni di aria umida e fredda, mentre spostandosi verso l’alto lungo le pendici la temperatura aumenta e l’umidità diminuisce.

Di conseguenza la disposizione delle specie arboree è invertita rispetto all’altitudine: la foresta di leccio e la macchia mediterranea, composta da erica, mirto e lentisco, si trovano in alto, sui bordi del cratere, mentre sul fondo, a pochi metri sul livello del mare, sopravvivono specie mesofile di quota più elevata, quali castagno, farnia, rovere e olmo.

La notevole diversità ambientale presente nell’Oasi ha consentito l’instaurarsi di un’altrettanto varia comunità animale.

Numerosa e diversificata la comunità ornitica, con specie boschive come il picchio rosso maggiore (Dendrocopus major ) scelto come simbolo dell’Oasi, ma anche rapaci, come il falco pellegrino che vi nidifica.

Si trovano poi svariati anfibi associati alla zona lacustre, che possono godere di un altrettanto eterogeneo gruppo di invertebrati di cui nutrirsi. Numerosi i lepidotteri, due specie dei quali esclusive degli Astroni.

La mammalofauna risente invece della limitata estensione della Riserva e della forte antropizzazione delle aree circostanti, il più delle quali adibite a vigneti; ciononostante è possibile trovare volpi (Vulpes vulpes), mustelidi e numerosi roditori.

Accanto alla fauna locale si accompagnano interventi di introduzione, come quello che ha interessato nel 1998 l’immissione nel Lago Grande della moretta tabaccata (Aythya nyroca), i cui individui possono essere osservati ancora oggi.

Nonostante il suo burrascoso passato e lo stato non ottimale in cui verte attualmente, gli Astroni rappresentano tutt’ora un importante anello di congiunzione tra la comunità partenopea e la dimensione naturalistica del territorio.
 

Bibliografia

  • Gaetano D’Ancora, Guida ragionata per le antichità e per le curiosità naturali di Pozzuoli e de’ luoghi circonvicini, Napoli, Onofrio Zambraia, 1792.
  • Giuseppe De Lorenzo e Carlo Riva, Il cratere di Astroni nei Campi Flegrei, Napoli, tipografia della Real Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, 1902.
  • Bartolomeo Facio, De rebus gestis ad Alfonso Primo, Napoli, Joannis Gravier, 1769.
  • Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, Volume II, Napoli, Vincenzo Manfredi, 1797.
  • Ferrante Loffredo, L’antichità di Pozzuolo et luoghi convicini, Napoli, Antonio Bulifon, 1675.
  • Giuseppe Mormile, Descrittione dell’amenissimo distretto della città di Napoli, et dell’antichità della città di Pozzuolo, Napoli, Tarquinio Longo, 1617.
  • Lorenzo Palatino, Storia di Pozzuoli e contorni, Napoli, Luigi Nobile, 1826.
  • Giovanni Antonio Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, Raffello Gessari, 1749.

 

Immagini

  • in testata: Michael Wutky, La tenuta degli Astroni (olio su tela 50×64 – Vienna, Gemäldegaleric der Akademie der bildenden Künste).
  • in evidenza: il lago di Licola (Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794).



Un messicano a Napoli

Oggigiorno l’introduzione di specie aliene è uno degli argomenti più “caldi” e fervidamente dibattuti in ambito biologico. Appare infatti immediato, senza prendere posizione in merito, constatare come l’immissione di un organismo esotico possa comportare squilibri a volte sostanziali della flora e della fauna autoctone.
La pratica di importare specie estranee al territorio è in realtà ben radicata nel tempo; ne è testimonianza il tentativo di naturalizzazione dell’axolotl a Napoli nel XIX secolo.
L’axolotl, nome comune di Ambystoma mexicanum, è un anfibio dell’ordine Caudata originario del Messico; per la precisione la sua area di distribuzione è confinata al Lago di Xochimilco, vicino Città del Messico, e ai canali attigui. Particolarità della specie è la neotenia, per cui l’individuo raggiunge la maturità sessuale conservando alcuni caratteri larvali, come le branchie esterne. Difficilmente la forma neotenica può effettuare spontaneamente la metamorfosi, ma questa può essere indotta da un cambiamento ambientale o attraverso trattamenti ormonali (es. iniezioni di tiroxina).

Axolotl (foto di Chatoune Belmonte, da fr.wikipedia.org/wiki/Axolotl)

Axolotl (foto di Chatoune Belmonte, da fr.wikipedia.org/wiki/Axolotl)


 
I primi studi sugli axolotl risalgono a quando sei esemplari selvatici (cinque maschi e una femmina) furono trasportati da Città del Messico al Jardin des Plantes di Parigi nel 1864 e lì fatti riprodurre. Il professor Auguste Dumeril, colpito dalla inaspettata trasformazione di alcuni esemplari nella forma adulta, ne accertò la neotenia. Successivamente sei coppie di axolotl della collezione parigina furono donate al Professor Alessandro Kowalewsky dell’Università di Kazan che le portò a Napoli.
L’eccezionale successo riproduttivo degli esemplari fece sì che il Professor Paolo Panceri ipotizzasse un intervento di naturalizzazione.
Nel marzo del 1868, ben 350 larve di axolotl furono distribuite nei laghetti del Real Orto botanico, mentre altre 300 larve furono spartite tra il Lago di Agnano, oggi prosciugato, e il Lago d’Averno. L’esperimento nei due laghi flegrei non ebbe seguito, al contrario nell’Orto furono registrate la riproduzione e la crescita degli esemplari, che superarono sorprendentemente le rigide temperature invernali nelle vasche.

Lago di Agnano

Il Lago di Agnano (particolare della Carta geografica N° 14 Napoli, Ischia, Procida – Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, 1794).


 
Panceri riferisce anche di una metamorfosi di alcuni individui nello stadio adulto.

Fra gli undici individui, uno incominciò ai primi di ottobre a mostrarsi con macchie giallicce agli arti ed a rifiutare l’alimento; le branchie mano mano si atrofizzarono, le macchie andarono crescendo, scomparvero le creste del dorso e della coda ed ecco, come le presentò, un Amblystoma simile a quelli ottenuti dal ch. Duméril.Panceri 1869b.

Forte di questo successo, nel maggio del 1912 Francesco Saverio Monticelli professore di zoologia e direttore dell’Istituto zoologico dell’Università di Napoli, tentò un nuovo intervento di introduzione della specie. Tra i motivi di questa scelta va considerato sicuramente l’interesse scientifico nei confronti di un animale così inusuale, ma non bisogna trascurare anche l’intenzione di attuare una lotta biologica contro le zanzare, responsabili della malaria. Gli axolotl sembravano infatti prediligere le larve di cuculidi come fonte di alimentazione. Fu scelto come sito dell’esperimento il lago craterico degli Astroni, ideale sia per la natura stagnante e poco profonda delle acque sia per una maggiore comodità nel campionamento. Il primo tentativo di naturalizzazione non ebbe i risultati sperati, in quanto non si trovò traccia delle larve liberate nel bacino. Monticelli dunque provò una nuova immissione nel giugno del 1913 includendo gli esemplari in una nassa di ferro zincata a maglie strette; la rete avrebbe difeso le larve da eventuali predatori ma non avrebbe impedito il passaggio di microfauna di cui nutrirsi. Con questo espediente alcuni axolotl sopravvissero e crebbero in dimensioni, ma la riuscita fu di breve durata in quanto gli animali non superarono l’inverno.

Si presume che l’intervento di naturalizzazione della specie fu abbandonato poichè non sono pervenute ulteriori notizie in merito; Monticelli continuò d’altronde a servirsi dell’area degli Astroni per studiarne la composizione faunistica.

 

Bibliografia

  • Francesco Saverio Monticelli, Per una possibile naturalizzazione di axolotl nelle nostre acque dolci, «Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli», 1913.
  • Francesco Saverio Monticelli, Notizie intorno agli axolotl dell’Istituto Zoologico della R. Università di Napoli, «Rendiconto Real Accademia Scienze fisiche matematiche», 1913.
  • Paolo Panceri, Gli Axolotl recati per la prima volta in Napoli, «Rendiconto Real Accademia Scienze fisiche matematiche», 1868.
  • Paolo Panceri, Intorno agli Axolotl cresciuti nel R. Orto Botanico, «Rendiconto Real Accademia Scienze fisiche matematiche», 1869a.
  • Paolo Panceri Nota intorno agli Axolotl che fa seguito all’altra pubblicata nel Rendiconto del Settembre scorso, «Rendiconto Real Accademia Scienze fisiche matematiche», 1869b.

 

Sitografia

  • The IUCN Red List of Threatened Species – www.iucnredlist.org/details/1095/0

 

Immagini

  • in testata: Codice borbonico (pag. 19), manoscritto messicano risalente al 1562 o 1563 (Bibliothèque du palais bourbon).
  • in evidenza: Axolotl (Ambystoma mexicanum) e salamandra tigre (Ambystoma tigrinum). Illustrazione tratta da Soviet encyclopedia (1926).



Teriaca

La teriaca è stata un antico rimedio dalle supposte virtù miracolose. Il suo nome deriverebbe dal greco θηριακή (theriaké), cioè antidoto (contro un morso velenoso). Secondo un’altra ipotesi la parola deriverebbe dal sanscrito tàraca (da tár ‘salva’) o ancora dal greco θηρίον (therìon) animale velenoso. Considerata magica, ha origini antichissime ed è stata prescritta per quasi diciotto secoli, fino alle soglie del XX sec., con numerose e spesso fantasiose varianti nella sua composizione.
La più famosa è la theriaca magna o di Andromaco il vecchio, medico di Nerone, il quale per evitare l’avvelenamento dell’imperatore si era ispirato agli insegnamenti di Mitridate e allo scopo di aumentare le virtù terapeutiche della teriaca introdusse la carne di vipera in base alle credenze dell’epoca; infatti, l’animale velenoso avrebbe dovuto possedere all’interno del suo corpo anche il suo antidoto.
Della Theriaca 1594Facendo storicamente qualche passo indietro (I sec. a.C.), si narra che il medico Crautea, pressato dalle richieste del preoccupato sovrano Mitridate, si era mobilitato alla ricerca di un rimedio contro ogni forma di avvelenamento. Il potente farmaco che era stato messo a punto passò alla storia come mitridatium e aveva una formulazione complessa. Da allora, i medici e i farmacologi definiscono “mitridatismo” l’assuefazione fisiologica ai veleni, e la conseguente neutralizzazione di ogni loro effetto deleterio. La tradizione vuole che la ricetta per la sua preparazione fosse trovata dal generale romano Pompeo in un nascondiglio del palazzo di Mitridate, da qui il nome affidatole di elettuario di Mitridate.
Intorno alla prima metà del II sec. a.C., il medico di Pergamo Nicandro da Colofone aveva composto due poemetti su un suo antidoto dal nome Theriaca e sugli antidoti ai veleni in generale, enumerando circa 125 erbe utili contro il morso dei serpenti, di cui buona parte si ritroverà per secoli nelle farmacopee successive.
Critone di Heraclea, detto anche Critone il Giovane, medico greco vissuto tra I e II sec. d.C. fu medico personale dell’imperatore Marco Ulpio Nerva Traiano che seguì nella guerra contro i Daci (del quale evento ci testimonia Galeno nel suo De Compositione medicamentorum secundum locos, I. 3, vol. XII). Costui aggiunse alcuni componenti perfezionando ulteriormente la teriaca e ne fece largo uso nei campi di battaglia.
Secondo Plinio il Vecchio «Si dà il nome di teriaca a una preparazione inventata per sfoggio. Vi entra una congerie sterminata di ingredienti; e pensare che la natura fornisce tanti rimedi, ognuno dei quali basterebbe a guarire da solo» [Plinio XXIX, 24]. Poi però descrive alcune pasticche: «Con la vipera si fanno delle pasticche chiamate dai Greci teriache, recidendo per tre dita di testa e altrettante di coda, togliendo via le interiora e la parte scura aderente alla spina, facendo ben cuocere in una padella con l’acqua e l’aneto quanto resta del corpo, ripulendola delle scaglie e aggiungendo fior di farina: le pasticche cosi ottenute si fanno seccare all’ombra e si usano per molte medicine. Mi sembra doveroso segnalare che questa preparazione si fa solo con la vipera» [Plinio XXIX, 70].teriaca
Grande attenzione per la teriaca si ritrova negli scritti di Galeno di Pergamo (138-201 d.C.) che seppe miscelare la tradizione filosofica con le discipline matematiche più vicine all’architettura, professione paterna, introducendo in medicina il rigore dimostrativo della geometria euclidea. Nel De theriaca ad Pisonem esaltò l’azione portentosa di questo farmaco affermando che un’assunzione quotidiana avrebbe protetto dai veleni più potenti.
Le Ordinationes di Federico II, emanate nel 1231-41, separarono le competenze tra medici e speziali, proibirono di contrarre società tra loro, vietarono ai medici di possedere una propria spezieria e riservarono la preparazione di tutti i farmaci, tra cui la teriaca, ai soli speziali. D’altra parte nel corpus normativo noto come Costituzioni di Melfi (Liber Constitutionum Regni Siciliae o Liber Augustalis), aveva stabilito che i medici avrebbero potuto esercitare la professione solo se laureati alla Scuola Medica di Salerno e previsto pene severe per coloro che avessero fatto commercio di preparazioni false o pericolose.Bartolomeo Maranta
All’inizio del XIV sec., attraverso la via della seta e i viaggi intrapresi verso l’estremo Oriente, furono introdotte in Europa nuove spezie e droghe il cui utilizzo e vendita furono affidate a corporazioni di speziali. La teriaca fu oggetto in questo periodo di variazioni della propria composizione passando dai 62 componenti citati da Galeno ai 74 della farmacopea spagnola.
L’auge della sua popolarità fu raggiunta nel XVI sec. per cui tutte le spezierie di Napoli, Roma, Bologna e Venezia si dedicarono alla preparazione raggiungendo volumi di produzione e vendita tali da influire sull’economia cittadina. La migliore sembra fosse proprio la teriaca veneziana verosimilmente a seguito dell’intenso traffico commerciale e di scambi che questa città ebbe in tal periodo. Qui la sua preparazione avveniva nel mese di maggio per le correlazioni astrali ritenute particolarmente favorevoli e godeva di una notevole popolarità, con la realizzazione di una sfarzosa cerimonia che prevedeva l’esposizione al pubblico per tre giorni e la partecipazione delle più alte cariche della Serenissima e del protomedico.
La composizione della teriaca ha avuto delle variazioni nel tempo, trasformandosi da semplice rimedio contro i veleni a panacea per combattere numerose malattie. Le teriache del XVI, XVII e XVIII sec. prevedevano in proporzioni variabili angelica, centaurea minore, genziana, mirra, incenso, timo, tarassaco (componenti amari), succo d’acacia e potentilla (astringenti), miele attico e liquirizia (per addolcire), finocchio, anice, cannella e cardaromo (carminativi), radice di valeriana e aristolochia, opoponax (elementi fetidi), scilla e agarico bianco (per il gusto acre), asfalto, matricaria e oppio di Tebe (sedativi) e per concludere vino di Spagna, pepe, malvasia, zafferano, fungo del larice, gomma arabica, mastice, croco, castoro, rabarbaro, calcite, trementina, carpo balsamo, malabatro, terra di Lemno, opobalsamo, benzoino e solfato di ferro. 938791bd7670c095A questi si aggiunsero i trochisci di vipera cioè carne di vipera femmina non gravida dei Colli Euganei, catturata dopo il letargo invernale, privata di testa coda e visceri, bollita in acqua di fonte aromatizzata con aneto e impastata con pane secco in forme rotondeggianti della grandezza di una noce, infine essiccate all’ombra. La preparazione doveva inoltre maturare per sei anni ed era ritenuta valida per almeno altri trentasei.
La modalità di somministrazione variava in base alla patologia, età e grado di debilitazione del paziente che l’assumeva dopo avere assunto una purga, stemperata in vino, miele, acqua o avvolta in foglia d’oro in quantità variabili da una dramma (1,25 g) a mezza dramma. Per le influenze astrali cui abbiamo accennato, eredità delle correnti di pensiero ermetico vivamente rappresentate durante il sincretismo alessandrino, era preferibile assumere la teriaca in inverno, seguito da autunno e primavera, ma mai d’estate.
Le patologie sulle quali si riteneva che agisse terapeuticamente erano come detto le più svariate: coliche, febbre maligna, insonnia, emicrania, angina, tosse, ipoacusia, lebbra, peste, impotenza, morsi di vipera e di cane, avvelenamenti.
Alla fine del XVIII secolo, la teriaca scomparve dalle farmacopee di molte città europee, ma in Italia e nel Meridione, la sua popolarità continuerà ancora a lungo. Il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, resosi conto delle potenzialità economiche del composto, nel 1779 ne impose il monopolio statale con l’obiettivo dichiarato di proteggere dalle teriache contraffatte la salute dei cittadini. La preparazione fu affidata in esclusiva al Real Elaboratorio Chimico, e tutti gli speziali del regno furono obbligati ad acquistarne almeno mezza libbra l’anno. Dovevano inoltre esserne sempre forniti e all’ispezione del protomedico o del suo vice, ogni speziale doveva esibire, oltre al vasetto della teriaca, la ricevuta dell’acquisto annuale. Il prezzo, fissato con intenti concorrenziali (il prezzo di mercato della teriaca veneziana era intorno ai 24 carlini) oscillava, a seconda delle quantità acquista, dai 18 ai 12 carlini (per un acquisto di almeno cinque libbre).

Vi si osserva anche il Real Elaboratorio Chimico con tutti gli strumenti operatorij: il medesimo ha il diritto privativo di preparare e vendere la Teriaca, accordatogli dal Re con dispaccio di Agosto 1779 della qual Teriaca tutti gli Speciali [speziali] di Napoli e di questo Regno si debbono provvedere. Sarnelli, 1782

L’esperimento borbonico della teriaca statale ebbe scarso successo, né le cose migliorarono quando il diritto di esclusiva sulla fabbricazione passò, nel 1807, per iniziativa di Giuseppe Bonaparte, al neonato Real Istituto di Incoraggiamento alle Scienze naturali di Napoli. La causa non è da ricercare nella scarsa richiesta o consumo, bensì perché era affiancata da quella venduta di “controbando” tradizionalmente preparata in segreto dagli speziali napoletani.
Il Real Istituto di Incoraggiamento alle Scienze naturali di Napoli, attraverso varie vicissitudini, mantenne il proprio diritto fino al 1863. Dagli Atti Ufficiali al paragrafo Proventi leggiamo: «Ecco i precisi termini del Decreto. Dopo la consueta formola, segue: “Art. 1.° La confezione della teriaca sarà sottoposta alla ispezione della Società d’Incoraggiamento. Art. 2.° Andrà in conseguenza a vantaggio della medesima il diritto della privativa di un tal farmaco, che trovavasi accordata all’estinta Accademia di Scienze e belle lettere”. Napoli 11 settembre 1807. Con altro Decreto del 13 ottobre dello stesso anno furono dati alla Società tutti gli antichi utensili che servivano alla fabbricazione della teriaca, ed il residuo del farmaco che si trovava presso l’estinta Accademia. […] In quel tempo lo smercio della teriaca non superava un migliaio e mezzo di ducati annui; dal quale valore, detraendo tutte le spese per le droghe, e per la vendita, ciò che avanzava era appena sufficiente per lo acquisto dei giornali. E doveva esser cosi, perché come eran liberi i farmacisti di acquistare dall’Accademia la quantità di farmaco, che meglio ad essi piaceva, la proverbiale mala fede di questi dispensatori della salute pubblica, consigliava a non pochi di ricorrere al catrame o ad altre simili materie per adoperarle in sostituzione della teriaca negli usi più comuni» [Atti Incoraggiamento, 1863].

Bene mio! che scrianzatune! m’hanno fatto mettere la vermenara! Pulicenè, figlio mio, dimane mme voglio piglia n’onza d’acqua turriacale. Altavilla, 1853

La vendita della teriaca sotto monopolio dello stato non ebbe successo non per scarsa richiesta o consumo; la causa fu invece perché era affiancata da quella venduta di “controbando” tradizionalmente preparata in segreto dagli speziali napoletani.
In ogni caso la teriaca contribuì alla sopravvivenza di importanti società scientifiche che dopo l’unità: «Il terreno su cui la questione andava portata è questo: deve lo Stato soccorrere corpi accademici sì o no? Una volta che si fosse detto di no, io sarei stato il primo ad accettarne le conseguenze, ed a riconoscere giusto il rifiuto del sussidio agli istituti di incoraggiamento di Napoli e Palermo, i quali non sono altro che accademie. […] … Ma poiché lo Stato dà lire 28,769 59 all’accademia della Crusca, e ne dà altre 15,709 all’accademia delle scienze di Torino, oltre altre 28,501 89 all’istituto lombardo, io non so perché non dovesse poi dare le 24 mila lire per gl’istituti di incoraggiamento di Napoli e Palermo. Lascio da parte il monopolio della teriaca che è affatto ridicolo, torno a dirlo, il parlarne, e passo a dire che cosa sono gl’istituti d’incoraggiamento di Napoli e di Palermo, se la Camera me lo permette» [Atti del Parlamento Italiano, 1863]; così nella tornata della Camera dei Deputati del 3 febbraio 1863 Federico Capone difese l’Istituto d’Incoraggiamento di Napoli e Palermo.

Vipera aspis (foto di Alexandre Roux)

Vipera aspis (foto di Alexandre Roux)


 
La teriaca è proposta quale panacea per tutti i mali anche in una versione della canzone ’O Guarracino. In questa versione il parapiglia e la rissa non avvengono per le avance del Guarracino alla Sardella «ch’avea ’nchiantato l’Alletterato primmo e antico ’nnamorato» ma perché «Chella ’a sposa già era prena».

e ’o guarracino dicette allero
“Finalmente me sì mugliera”
[…]
La sardella se sente int’a panza
comme si fosse na cuntrattanza
“Aiuto, aiuto – alluccaje n’alice –
Priesto chiammate na levatrice”
“È cos’ ’e niente – dicette ’a murena –
Chella ’a sposa già era prena”
“A chi è figlio – strillaje ’o guarracino –
M’ha fatto curnuto ’e Santu Martino”
[…]
e succerette proprio na uerra
nu fuja fuja e nu serra serra
cinquanta muorte duecento ferite
e n’ati vinte ’mpericulo ’e vita
e ll’ate jettero add’o speziale
pe piglià ll’acqua turriacale

 

Bibliografia

  • Pasquale Altavilla, L’arrivo de Pulecenella a Casalenuovo, Napoli, Tipografia de’ Gemelli, 1853.
  • Atti Incoraggiamento: Sedi e proventi del Reale Istituto, «Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali di Napoli», X (1863), pp. 118-126.
  • Atti del Parlamento Italiano – Discussioni della Camera dei Deputati, VIII Legislatura – Sessione 1861 – 1862 (11/12/1862 – 28/02/1863), Volume (VIII) XIV della Sessione 4° periodo dal 11/12/1862 al 22/12/1862 Roma, Tipografia Eredi Botta 1883, pp. 4937-4965.
  • Salvatore De Renzi, Storia della medicina in Italia, vol. I, Napoli, Tipografia del Filiatre-Sebezio, 1849
  • Bartolomeo Maranta, Della theriaca et del mithridato libri due di m. Bartolomeo Maranta, […] ; ne quali s’insegna il vero modo di comporre i sudetti antidoti, et s’esaminano con diligenza tutti i medicamenti, che v’entrano, Venezia, Marcantonio Olmo, 1572.
  • Prammatiche: Nuova collezione delle prammatiche del regno di Napoli, tomo XII, Napoli, Stamperia Simoniana, 1805.
  • Pompeo Sarnelli, Nuova guida de’ forestieri e dell’istoria di Napoli […], Napoli, Erede di Saverio Rossi, 1782.

 

Immagini

  • in testata: Sebastien Stoskopff, Vanitas mit Theriac-Behälter (1627, Galerie Koetser, Zürich).
  • in evidenza: urna della teriaca realizzata da Crescenzio Trinchese. Farmacia storica degli Incurabili (museoartisanitarie.it).



I guardiani della notte: il gufo e la civetta

In molte culture tradizionali, da Oriente a Occidente, l’essere alato ha da sempre raccontato un legame con il divino.
Ogni parte anatomica degli uccelli, ogni caratteristica legata al verso ha evocato simboli celesti. In particolar modo le ali rappresentano nella tradizione cristiana la spiritualizzazione, la protezione del creato, il volo verso l’alto; il verso, invece, il linguaggio che «stabilisce la comunicazione con gli stati superiori dell’essere» [Guenon 1975].
Ciò nonostante il verso del gufo e della civetta, come altri uccelli notturni, nelle tradizioni popolari occidentali ha ispirato simboli negativi, al punto da demonizzarli.
Come tutti gli animali totemici, la civetta e il gufo possono essere il simbolo di una singola persona oppure di intere popolazioni. In alcune tradizioni l’associazione con il proprio totem avviene durante una cerimonia d’iniziazione che lega lo spirito dell’uomo allo spirito dell’animale, tanto da assumerne gli aspetti e gli atteggiamenti.
Gli strigidi, famiglia a cui appartengono il gufo e la civetta, prendono il loro nome dal latino strix, da cui è derivato in italiano il nome strega. Infatti si narra che le streghe assumessero dapprima, in epoca romana, fattezze di uccelli notturni con testa grossa, il becco e gli artigli da rapace per una magia; successivamente, nel Medioevo, assunsero fattezze umane di donne brutte che partecipavano ai sabba per unirsi ai demoni.

Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena né Progne vi si vedono;
ma meste strigi et importune nottole.Sannazaro Arcadia

La fama di questi rapaci notturni è cambiata nel corso della storia in base alle popolazioni. Noi occidentali la civetta l’abbiamo considerata compagna delle streghe, ma per quanto riguarda i rapaci notturni e le tradizioni a essi legate c’è un po’ di confusione, forse dovuta alla somiglianza che queste specie hanno tra loro e il mancato riconoscimento negli avvistamenti notturni. Entrambe le specie hanno la testa un po’ più grande rispetto al resto del corpo, occhi molto gradi e dal colore molto vivace, becco adunco, zampe tipiche dei rapaci e, per i non esperti, un verso poco distinguibile. Proprio per questo hanno a volte assunto il termine generico di nottola oppure, in altri casi, il termine gufo e civetta sono stati utilizzati indistintamente.
Gli egizi associavano la figura della civetta alla morte, utilizzando la sua figura nell’alfabeto geroglifico per rappresentare l’anima che abbandonava il corpo.

02 Civetta 6689_a3600294

Moneta greca chiamata tetradramma o civetta

 

Nella mitologia greca, invece, la civetta è considerata simbolo della sapienza, dell’intelligenza razionale capace di discernere laddove altri scorgono solo ombre e oscurità tanto che Atena, dea della saggezza, è rappresentata spesso con una civetta posata sul palmo di una mano. Le monete ateniesi chiamate civette avevano raffigurato su un lato la dea Atena, sull’altra faccia appunto la civetta. Inoltre il suo nome greco è glàux, “la rilucente” e per questo paragonata alla luna che brilla di luce riflessa. Da allora, la presenza nella notte della civetta è associata al vegliare del saggio e il suo verso stridente non rappresenta più un presagio funesto ma l’avvertimento all’uomo della brevità della vita.

Rivista Gianbattista Basile

In epoca romana la civetta era considerata portatrice di malaugurio e secondo le leggende si nutriva di sangue e carne umana. Nella letteratura latina si racconta che donne esperte di magia si trasformassero anche in gufi.
Così come in altre superstizioni popolari, anche a Napoli quando si sentiva stridere una civetta si diceva: “È buono addo’ canta e malamente addo’ tremete (guarda)” oppure “Biato a do’ posa e maro’ (guai) a do’ canta”. Il suo stridere era, infatti, associato ai lamenti delle anime dei morti così come riportato anche da vari autori della letteratura classica. Queste credenze popolari hanno fatto sí che la civetta fosse la specie più perseguitata per la sua fama di uccello del malaugurio.

Altra espressione rimasta nella tradizione napoletana è: “Pare’ ’a Coccovaja ’e Puorto” (letteralmente: sembrare la civetta del porto; in senso traslato: donne particolarmente brutte e sgraziate). Questo detto prende origine dalla famosa Fontana degli Incanti o della Cuccuvaja che fu costruita nella metà del XVI sec. per volere di don Pedro di Toledo e all’epoca situata in Piazza di Porto o dell’Olmo (attuale Piazza Bovio), antistante la zona del porto. Ciò che resta di questa fontana è oggi in Piazza Salvatore di Giacomo a Posillipo, ma le sue condizioni sono indegne. È chiamata Fontana della Cuccuvaja perché vi era scolpita la statua di una civetta e Fontana degli Incanti poiché una leggenda narra che una strega utilizzò l’acqua di quella fontana per preparare una pozione che avrebbe fatto innamorare una giovane popolana di un nobile spagnolo; altri raccontano invece che i mercanti e i venditori “incantavano” le proprie merci.
La più antica testimonianza del legame tra il gufo e l’uomo risale all’epoca preistorica nella grotta di Chauvet dove tra le incisioni di vari animali c’è anche quella dei gufi.
Il gufo è riconosciuto per antonomasia il rapace che vede nell’oscurità e diventa attivo di notte quando buona parte dei viventi dormono. Così come la civetta, anche il gufo, abile cacciatore nella notte, ha un volo molto silenzioso ma il suo verso è capace di squarciare la quiete notturna. Nella tradizione magica, è simbolo di chiaroveggenza, saggezza, conoscenza, consapevolezza ed è elevato a simbolo di colui che vede oltre il velo dell’oscurità. Associato a maghi e indovini, per la sua duplice natura il suo potere è utilizzabile sia per scopi positivi sia negativi.
In epoca romana le immagini dei gufi erano usate per combattere e respingere il malocchio.
In varie culture incarna la ricerca spirituale, la meditazione sulla morte e il silenzio del mistero del mondo. Nella cultura sciamana il totem del gufo rappresenta la profondità della realtà psichica, la guida per ritrovare la luce della saggezza ed era impiegato anche nella ruota della medicina.

et uncta turpis ova ranae sanguine, plumamque nocturnae strigis Orazio Epodi V

Per la sua ambivalenza simbolica, il gufo ha anche evocato l’emblema del traditore che prepara nell’ombra oscuri progetti. Durante il periodo del Rinascimento l’emblema del genio cattivo era raffigurato con un gufo in mano.
Oggi il gufo e la civetta sono utilizzati come amuleti che aiutano a riconoscere il cammino, interpretare messaggi apparentemente incomprensibili e proteggere dall’eccessivo attaccamento ai beni materiali.

 

Bibliografia

  • Alfredo Cattabiani, Volario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2010.
  • Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2014.
  • Antonio Colombo, La fontana degli incanti, «Napoli nobilissima», VII (1906), 8 pp. 113-115.
  • René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975.
  • Jacopo Sannazaro, Arcadia, Venezia, Giovan Andrea Valvassori, 1559.

 

Immagini

  • in testata: foto di Abariltur.
  • in evidenza: Athene noctua (foto di Trebol-a – https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Athene_noctua_(portrait).jpg).