Il sacrificio dell’agnello

La tradizione vuole che la domenica di Pasqua l’agnello imbandisca la nostra tavola; il perché questa carne dal gusto così particolare sia mangiata proprio quel giorno, è da ricercare in tempi antichissimi, quando il piccolo di Ovis aries (Linnaeus, 1758) era considerato un animale sacrificale.
Nel II millennio a.C., il popolo mesopotamico degli Ittiti immolava un agnello ogni qual volta necessitasse di una grazia o invocasse il perdono della divinità (Furlani, 1932). La vittima sacrificale «non può essere toccata da una persona impura, né può subire violenza alcuna da parte di un impuro» (Furlani, 1932). Per questo la cerimonia era svolta dai bārū (divinatori) che, mentre un aiutante teneva l’animale per la fronte, recitava uno dei tanti ikribu (preghiere), invitando gli dei ad accettare benignamente il dono o di rispondere alla domanda mantica. Terminato tale rituale, l’agnello era ucciso recidendone le vene del collo. Per gli Ittiti era fondamentale presentare alla divinità un animale perfettamente in salute e integro. Per questo qualsiasi «atteggiamento brusco, ostile verso la vittima, come colpi di bastone» non era ammesso all’interno del rituale poiché con «tali atti la vittima cesserebbe di essere perfetta e quindi non costituirebbe più un dono adatto a un dio» (Furlani, 1932).

L’idea della vittima senza difetto si conserva nella tradizione ebraica. Il popolo di Israele infatti, ricevette da Dio il compito di scegliere tra gli agnelli o i capretti «una pecora perfetta, maschio di un anno» (Esodo 12, 6-15).
L’animale doveva essere preservato fino alla prima notte di luna piena di primavera, cioè il quattordicesimo giorno del mese di Nissan (tra marzo e aprile), che rappresenta la Pasqua ebraica. In quell’occasione veniva sgozzato. Gli ebrei donavano l’agnello integro alla divinità proprio come gli Ittiti, ma a differenza di questi ultimi, l’atto sacrificale era svolto senza sacerdote e avveniva una sola volta l’anno in una data ben precisa.
La carne del sacrificio pasquale veniva consumata dalla comunità ebraica rigorosamente arrostita. Nulla doveva avanzare, nemmeno la testa e le interiora. Nel caso accadesse una tale eventualità, i resti dovevano essere bruciati, senza frantumare le ossa, entro il mattino seguente.
L’episodio narrato nell’antico testamento introduce la Pasqua cristiana che, pur perdendo l’atto sacrificale, conserva l’agnello come simbolo di sacrificio, assimilandolo alla figura di Gesù. Assente nei vangeli sinottici, la corrispondenza agnello-Cristo si trova nel vangelo di Giovanni, nel passo in cui Giovanni Battista lo identifica come «l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Giovanni 1,29). L’identificazione di Gesù come agnello ha reso questo animale il simbolo della Pasqua cristiana e di conseguenza, il piatto più prelibato di questa festa.
La tradizione culinaria dell’agnello a Napoli è legata al popolo, essendo il cibo più consumato del «povero in primavera e in està» perché, nonostante la carne sia più tenera di quella di montone, è meno nutriente (Spatuzzi e Somma, 1863). La consistenza tenera della carne, si conserva fino all’età di un anno ma, essendo molto umida, è consigliabile cuocerla arrosto e condita con rosmarino, aglio, salvia e chiodi di garofano per addolcirne il sapore (Pisanelli, 1589).
I napoletani inoltre distinguono l’agnello vernereccio da quello curdisco. Il primo è l’agnello concepito nel vernus, in particolare dalla metà di maggio fino a giugno. Dei nati la maggior parte sostituisce le pecore morte del gregge o servono per la riproduzione, la restante è venduta (Soppelsa, 2016). «Gli allievi cordeschi sono tutti venduti» (Gasparrini, 1845) e utilizzati nella preparazione di piatti pasquali. Infatti, essendo tardivi, cioè nati tra gennaio e aprile, hanno una carne molto tenera e perciò più prelibata.
Fra tutte le ricette napoletane con protagonista l’agnello, è famoso il curdisco di Sant’Anastasia che, a dispetto della tradizione, non è arrostito ma al forno. Sull’Appennino Campano-Lucano invece si preparano gli ammugliatielli, involtini di interiora di agnello, chiamati così perché ricordano un gomitolo sia per la forma sia perché per prepararli devono essere avvolti come si fa con la lana. Sono imbottiti con aglio, prezzemolo, peperoncino e formaggio, si mangiano per lo più arrostiti ma si preparano anche in altri modi.

Bibliografia

  • Giuseppe Furlani, Il sacrificio nella religione dei Semiti di Babilonia e Assiria, Atti della Reale Accademia nazionale dei Lincei, in Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, CCCXXIX, serie VI, vol. IV, fasc. III, 1932, pp. 105-370.
  • Guglielmo Gasparrini, Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del regno di Napoli di qua del faro, Napoli, Tipografia del Filiatre-Sebezio, 1845.
  • Bibbia, La Bibbia di Gerusalemme, Trento, LEGO, 2013.
  • Bibbia, La Bibbia dei LXX. 1. Il Pentateuco, Roma, Edizioni Dehoniane, 1999.
  • Baldassarre Pisanelli, Trattato della natura dei cibi, et del bere, Carmagnola, Marc’ Antonio Bellone, 1589.
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.
  • Achille Spatuzzi, Luigi Somma, Saggi igienici e medici sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli, in Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, a cura dell’Accademia Pontaniana di Napoli, Stamperia della Real Università, 1863.

Immagini

  • in testata: Francisco de Zurbarán, Agnus Dei (1635-1640, Museo del Prado).
  • in evidenza: Jacopo Da Ponte detto Jacopo Bassano, Ultima cena (1546, Galleria Borghese).