Eumachia filava: una breve storia della lana

Sin da tempi antichissimi l’uomo ha riconosciuto l’importanza della lana quale una delle manifatture più importanti in assoluto, si trattava inoltre di un’arte assolutamente inclusiva per qualsiasi ceto sociale, tanto che Numa Pompilio (VII sec. a.C.) fece imprimere sulle sue monete un’impronta di pecora quale simbolo della sua utilità, da qui l’etimologia della parola pecunia (lat. pecus); allo stesso modo Servio Tullio (VI sec. a.C.) fece incidere un vello (lat. vellere, strappare) nelle sue monete. Il simbolismo legato a questo materiale si riflette soprattutto nel famoso mito del vello d’oro dell’ariete Crisomallo conquistato da Giasone e gli Argonauti.

Proprio all’epoca di Numa Pompilio risale la più antica fullonica, luogo in cui si realizzava l’arte praticata dalla corporazione dei fullones, ossia tintori, lavandai e fabbricanti di stoffe. Il processo di follatura aveva lo scopo di conferire leggerezza e morbidezza ai tessuti, in particolare alla lana, e consisteva in diverse fasi che prevedevano un lavaggio in presenza di sostanze alcaline (spesso urina), il risciacquo e la finitura del tessuto.
 

Fullonica di Veranius Hypsaeus, affresco da Pompei, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (da Wikipedia).


 
Numerose epigrafi in varie città dell’Impero testimoniano la diffusione capillare delle corporazioni di fulloni, si trattava infatti di un mestiere particolarmente popolare in quel periodo poiché ogni toga e veste doveva esser sottoposta a trattamenti specifici. Nel Foro di Pompei vi era uno dei luoghi più significativi per l’attività laniera dell’epoca: l’edificio di Eumachia, patrona della corporazione dei fullones. L’intero edificio era dedicato alla lavorazione della lana, infatti all’interno si effettuava la follatura, mentre sulla facciata principale si installava un vero e proprio mercato dedicato ai tessuti. Il portale dell’edificio era circondato da un altorilievo in marmo sul quale sono raffigurati tralci d’acanto e diversi animali. Spesso nelle fulloniche era rappresentata la civetta, animale sacro a Minerva protettrice del lavoro, alla quale i fulloni erano devoti.
 

Dopo aver provveduto alla fame, ed alla sete, anche il cacciatore selvaggio sente il bisogno di coprire la nudità, o per difendersi dal rigore delle stagioni […]. Allora succede in esso la idea di adattarsi la pelle dello stesso animale, che gli ha fornito l’alimento. Ed ecco come tutti i popoli della terra han riconosciuto nella Lana la prima, e la più interessante materia di tutte le arti necessarie. (Colizzi Miselli, 1803)

 
Diverse erano le razze ovine (Ovis aries) utilizzate per la produzione della lana, di queste la più diffusa era certamente la pecora gentile, derivante dall’incrocio di arieti merinos importati dalla Spagna nel 1435 da Alfonso V d’Aragona con una razza locale detta carfagna o moscia. Mentre la carfagna possedeva un manto più scuro e ruvido, buono per coperte, materassi e per produrre un panno detto zigrino (Soppelsa, 2016), la gentile dava una lana fine e morbida, conservando i caratteri distintivi della varietà merinos: «Il ciuffo lanoso della fronte, la copertura della testa, e non di rado anche quella delle gambe, il vello a bioccoli serrati ed a lana raggrinzata come quella della pecora spagnuola, della quale se non è sempre ugualmente fine ed elastica, non è però inferiore per candore e per lucentezza, lo dimostrano nel modo più evidente» (Nobili-Vitelleschi, 1884).

Nonostante la razza gentile fosse molto più conveniente da allevare rispetto a quelle locali, sia per la maggior quantità di latte e formaggio che forniva, sia per la migliore qualità della lana, lunga e folta, molto richiesta dal mercato, la sua diffusione in Abruzzo fu ostacolata dalla imposizione della doganella. A partire dalla fine del XVI secolo si diffusero le pecore bigie ο biscie, ottenute dall’incrocio di pecore mosce con montoni gentili. Questi animali, pur generando una lana lunga e morbida molto simile all’altra, erano esentati dal pagamento della doganella: l’esclusione dalla tassazione delle razze ovine meno pregiate ne causò una maggiore propagazione.

Il vello delle pecore non è l’unica caratteristica che dà origine a una denominazione specifica, infatti spesso le si identificava in base al luogo di provenienza, come la matesina e la carapellese (dal latino pellites) la cui lana è bianca alla radice e più scura all’estremità, oppure in base all’età e al periodo di nascita. Infatti, circa cinque mesi dopo l’accoppiamento, a inizio autunno nascono gli agnelli vernerecci e a febbraio i curdischi, ovvero quelli della seconda figliatura, la cui carne è utilizzata nei piatti tipici delle festività pasquali. Gli agnelli selezionati per essere allevati si dicevano aini se maschi o sterpe se femmine all’età di un anno, recchiarelle le femmine adulte, e ciavarri i maschi se interi, diversamente castrati. Il vervece era il maschio castrato, di grandi dimensioni, ironicamente associato all’agnolillo (Bombyx mori) (Soppelsa, 2016). Si distinguono poi le fellate cioè le pecore di primo parto dalle lunari che sono sterili.
Anche il periodo di tosatura, o carosa, contraddistingue una pecora maiorina (se avviene a maggio) da una agostegna (se avviene ad agosto). La tosatura prevede uno schema ben preciso, poiché si ricava la “lana prima” o madre, da collo e dorso, poi la “lana seconda” dai lati del corpo e cosce, infine la “lana terza” sotto al ventre, gambe e coda (De Ritis, 1851).
La lana così ottenuta spesso subiva processi di tintura, in particolare «Il miglior colore delle pecore è il bianco; perciocché le sole lane bianche ricevono colori vivi con la tintura» (Columella Onorati, 1805). Si utilizzavano coloranti di origine vegetale, come il cartamo che donava un colore giallo dorato, oppure coloranti animali come il cremisi della cocciniglia.

Per apparecchiare 60 lb di lana, destinata a formar una pezza di panno, si piglino 5 lb di tartaro rosso o bianco scelto, di fresco polverizzato, e passato per setaccio di crine: inoltre 10 lb di salamoia di sal marino, fatta in acqua fredda, o tepida, e satura al peso di 4 gradi nel pesa-liquore de’ saponai. (Talier, 1793)

A questa mistura di base si aggiungevano soluzioni di sali inorganici scelti in base al colore finale che si voleva ottenere. Il mordente così composto, previa bollitura, preparava la lana al bagno tintorio vero e proprio. Le soluzioni a base di stagno erano le più diffuse e si adattavano a vari colori, i mordenti a base di ferro davano i toni dei grigi, del nero e del verde se miscelati con verderame, con il rame mescolato con vetriolo azzurro si otteneva il blu e l’allume si usava per le tonalità di giallo.
 

Edificio di Eumachia, iscrizione sull’architrave del portico.


 
Escludendo l’attività dell’edificio di Eumachia, la manifattura laniera, fortemente radicata nel Regno di Napoli, avrebbe le sue origini intorno al 1190, epoca in cui furono emanate le prime normative sul commercio della lana. Sia i sovrani angioini, ma meglio ancora gli aragonesi e successivamente gli spagnoli, ebbero la necessità di regolamentarne l’attività produttiva, per ottenere una produzione costante della materia prima, a prezzi controllati e che fosse in grado di soddisfare le esigenze del mercato nazionale.
A tale scopo sfruttarono uno dei fenomeni più antichi legati all’allevamento del bestiame: la transumanza. Con l’arrivo dell’inverno i pastori provenienti dall’Abruzzo montano si spostavano in pianura per fornire una maggiore possibilità di pascolo alle greggi. Verso la metà del XV secolo, i monarchi resero obbligatoria la transumanza verso l’ampio pascolo piano costituito dal Tavoliere pugliese, assicurandosi così non solo il controllo sulla produzione e il commercio della lana, ma anche una ingente fonte di prelievo fiscale. I pastori abruzzesi, infatti, erano obbligati al pagamento di un diritto al sovrano in base al numero di capi che dovevano svernare in Puglia; in tal modo i pascoli disponibili erano sufficienti ad ospitare gli animali transumanti. Questo dazio, pari a 13,2 ducati ogni 100 capi posseduti (Pierucci, 1988), fu definito fida durante il regno di Alfonso I d’Aragona, ordinatore di una vera e propria Dogana delle Pecore (1443-1447), amministrazione che sarebbe perdurata fino al 1806. Poco dopo anche gli animali non transumanti in Puglia subirono la tassazione di una seconda amministrazione, la doganella d’Abruzzo.
I dazi doganali non si limitavano al controllo della transumanza, ma pesavano ancor di più sull’importazione di tessuti o prodotti finiti composti da lana, in base al grado di complessità di un prodotto, più o meno decorato, in base all’eventuale tintura che potevano aver subito e, soprattutto, in base alla qualità delle fibre di lana stessa.
 

Portale del lanificio napoletano, un tempo monastero e spezieria dei monaci domenicani di Santa Caterina al Formiello.


 
Nel Regno di Napoli diversi erano i luoghi dedicati alla lavorazione e al commercio della lana, un esempio è il complesso monumentale di Santa Caterina a Formiello a Napoli. Edificato nel XVI secolo, era abitato da monaci domenicani che ivi istituirono una farmacia storica curata da fra Donato d’Eremita, i cui medicamenti erano molto diffusi a Napoli. Dopo la soppressione dell’ordine dei dominicani (XIX sec.) e con il decreto n. 830 del 22 ottobre 1823 il monastero fu riadattato per poter ospitare il Lanificio di Raffaele Sava, diventando così un luogo per il commercio e la produzione della lana in pieno centro cittadino, cosa che non si vedeva da quando Eumachia “filava”!

Bibliografia

  • Vincenzo Colizzi Miselli, Memoria sulle lane greggie, e manifatturate dello Stato Pontificio, Roma, Luigi Perego Salvioni, 1803.
  • Nicola Columella Onorati, Delle cose rustiche ovvero della pastorizia, Napoli, Stamperia Flautina, 1805.
  • Vincenzo De Ritis, Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, 2 voll., Napoli, Stamperia reale, 1845-1851.
  • Francesco Nobili-Vitelleschi, Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol. XI, Tomo I, Roma, Forzani e C. Tipografi del Senato, 1884.
  • Paola Pierucci, Le Doganelle d’Abruzzo: struttura ed evoluzione di un sistema pastorale periferico, «Mélanges de l’Ecole française de Rome», 100, (1988), 2, pp. 893-908.
  • Isacco Saravalle di Mantova, Compendio geografico di commercio, vol. I, Venezia, Tipografia di Alvisopoli, 1817.
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.
  • Angelo Natal Talier, Dell’arte di tingere in filo, in seta, in cotone, in lana, ed in pelle, Venezia, Nuova Stamperia, 1793.

 

Immagini

  • in testata: lana di pecora (particolare da wikipedia, foto di Rob MacEwen)
  • in evidenza: disegno della statua marmorea di Eumachia (da Charles Bonucci, Pompéi décrite, Napoli, Imprimerie Française, 1830).



Appesi a un filo

Bombyx mori è il bombice del gelso, o baco da seta, insetto lepidottero della famiglia Bombicidae la cui larva produce uno dei tessuti più preziosi e noti al mondo: «Dalla semmenta nascono gli agnulille che nel momento in cui diverranno crisalidi produrranno il famoso bozzolo che serve alla produzione della seta» (Soppelsa, 2016).
La sua scoperta risale al XXVIII sec. a.C., quando un’imperatrice cinese fu attratta da questo bruco intento a tessere un bozzolo con estrema cura. Ella notò la preziosità di quel filato e ne diffuse immediatamente la produzione. Sin dall’epoca cristiana del Sacro Romano Impero e per molti secoli a venire, questo tessuto ha viaggiato lungo la nota Via della seta senza che si conoscesse la sua vera origine.

Parecchie specie allo stato di larva segregano una sostanza bianca come cotonosa, entro la quale rimangono occultate. (Costa A., 1863)

L’allevamento del baco da seta si indica con il termine bachicoltura, letteralmente ‘coltura del baco’, o sericoltura, che deriva dal latino sericus ‘seta’, da cui sericarius ‘lavoratore della seta’. Da sericus deriva anche ‘sericite’, un minerale molto diffuso in oriente, di lucentezza pari a quella della seta.
A partire dalla schiusa dell’uovo e durante le fasi larvali il baco si alimenta con grandi quantità di foglie fresche di gelso, generalmente gelso rosso (Morus nigra) e gelso bianco (Morus alba).

Ve ne sono di quelli che hanno tre, altri quattro di tali trasformazioni, dette mute o dormite. Il filugello che ne ha tre dicesi terzino quello che ha quattro, quartino: nel dialetto terzigno e quartigno.(De Ritis, 1845)

In queste fasi, il baco rimane pressoché immobile spende ogni sua energia per alimentarsi, che dà come risultato un considerevole sviluppo: dai tre millimetri del bacolino fino ai nove centimetri! La larva di ultimo stadio in pochi giorni si impupa cercando un substrato adatto a sostenere il suo bozzolo, solitamente ottenuto mediante ramoscelli secchi; da qui l’espressione “salire al bosco” attribuita alla fase del suo ciclo vitale precedente a quella della formazione della crisalide. Tramite una coppia di ghiandole, la larva produce un secreto molto sottile che solidifica a contatto con l’aria e che, guidato da movimenti ad otto della testa, costituisce il bozzolo, formato da un unico filo di seta lungo tra i 300 e i 900m. Dopo tre o quattro giorni il bozzolo è pronto e la larva inizia a trasformarsi in crisalide. Se la metamorfosi arriva a termine, la falena adulta secernerà un liquido con lo scopo di uscire dal bozzolo che ne risulterà gravemente danneggiato. Per tale motivo l’allevatore deve interrompere il ciclo vitale dell’insetto prima che la metamorfosi sia completa.
La falena adulta non si nutre e non è in grado di volare; in questa breve fase del ciclo vitale il suo unico scopo è la riproduzione. La femmina, dal corpo più grande e tozzo resta immobile in attesa del maschio, più piccolo e snello, che cammina agitando energicamente le ali. Il giorno successivo all’accoppiamento generalmente avviene la deposizione che consta di 300÷500 uova.

È cura dell’allevatore far completare la metamorfosi ad alcuni individui in modo da provvedere all’accoppiamento e quindi alla deposizione delle uova che inizieranno un nuovo ciclo.
Il baco allevato ai giorni nostri è da considerarsi il frutto di migliaia di anni di selezione (soprattutto artificiale) per cui non è in grado di sopravvivere allo stato selvatico.

La bachicoltura si diffuse inizialmente in Cina, uno dei maggiori produttori della storia della seta, poi in tutto l’Oriente. L’introduzione in Europa si deve a due monaci dell’ordine di san Basilio, i quali, di ritorno da una missione in Oriente datata 551 d.C., si presentarono all’imperatore Giustiniano e gli narrarono di aver visto che la seta è prodotta da animali e di aver appreso il modo per allevarli. Persuasi dall’imperatore, tornarono sui luoghi della spedizione e portarono a Bisanzio le uova del baco da seta, nascoste nel cavo dei loro bastoni di bambù. Queste uova diedero inizio alla pratica della bachicoltura in Europa: da Costantinopoli si diffuse poi in Grecia e, da qui, in Italia.

Jan Van der Straet - Ser, sive sericus vermis (incisione a bulino, Anversa, ca. 1590).

Jan Van der Straet – Ser, sive sericus vermis (incisione a bulino, Anversa, ca. 1590).


 
Nella prima metà del XII sec. l’Italia era la maggior produttrice europea di seta. La bachicoltura si affiancava spesso alle attività agricole ed ebbe un grande sviluppo durante la rivoluzione industriale, in particolare nel Nord Italia dov’erano molto diffuse le filande. L’allevamento si svolgeva nelle case dei contadini e le stanze adibite a questo scopo avevano numerose aperture sulle porte o sotto le finestre stesse per garantire l’aerazione ideale. Per contenere i bachi, si costruivano graticci o intelaiature in legno con fondo in canne o tela, sovrapponibili in modo da risparmiare spazio. Nel Regno di Napoli, le uova del baco dovevano essere sottoposte a determinate usanze: «s’avvolgono in pezzette bianche di lino, e si pongono nel petto delle Donne giovani, o pure tra due capezzali di piume scaldati al fuoco: questo si fà, quando cominciano a spuntare le cime tenere delle foglie de’ Mori Celsi in tempo di Primavera, e che la Luna abbia cinque, o sette giorni di aumento, il che suol essere circa li 25 d’Aprile» (Donzelli, 1704).

Donne che si collocano tra i seni i bozzoli avvolti in tele di lino (Ian Van der Straet - Aspersa vino tersaq ova vermium)

Donne che si collocano tra i seni i bozzoli avvolti in tele di lino (Ian Van der Straet, particolare)


 
La Sicilia era uno dei centri più fiorenti nella produzione di seta ancora ai tempi di Federico II, arte che fu ben presto trasmessa in Calabria sin dalla prima metà del sec. XI.
Fu nel XIII secolo che la Calabria ottenne il primato nazionale nell’industria serica, in particolare grazie alle comunità ebree di Catanzaro, Cosenza e Reggio, che fecero dell’allevamento del filugello la loro attività predominante, tanto che: «Anchora in Calabria se la superfluità non lo vetasse, e la commune humiltà lo permettesse, senza l’uso della lana, tutti potrebbono vestire sontuosamente di seta, perchè ogn’uno per povero ch’egli sia, fà in ogni anno nella propria casa tanta seta, che potrebbe commodamente vestire; non dimeno perchè la conditione non lo permette le preciosissime sete di Calabria sono trasportate per l’uso delle mercanti e in quasi tutte le parti del mondo» (Dito, 1967).
La produzione calabrese rimase fiorente per alcuni secoli ma dalla prima metà del XVII secolo subì un arresto a causa del costante aumento dei dazi. Questo sistema impedì ogni progresso dell’arte e, mentre nel resto d’Italia (Toscana, Emilia, Lombardia e specialmente Piemonte) progrediva di giorno in giorno, in Calabria rimase allo stadio iniziale e le sete calabresi persero valore. Il governo borbonico tentò di riportare l’industria agli antichi splendori, ma era ormai impossibile sostenere la concorrenza delle sete straniere.

Importantissimo fu il contributo di Napoli: ancora oggi i nomi di alcune strade testimoniano quanto fosse diffusa la bachicoltura, in particolare nelle zone di San Martino e Montesanto, dove si trovavano piantagioni di gelsi bianchi, scenario ideale per l’allevamento dell’agnolillo. Probabilmente l’arte della seta giunse a Napoli durante il dominio aragonese, intorno al 1458, e raggiunse un livello industriale in epoca borbonica con la fondazione del setificio di San Leucio nel 1789. La seta di produzione napoletana era tra le più apprezzate per leggerezza, purezza e colore contendendosi il primato con quella piemontese (Soppelsa, 2016), tanto che «Le semenze [uova] più lodate sono quelle di Spagna, e del Regno di Napoli» (Donzelli, 1726).

In seguito, i napoletani trovarono un’altra applicazione della seta: iniziarono a produrre i fili da pesca noti come “peli da pesca” o “crine di Firenze”, ottenuti modificando le ghiandole della seta prelevate dai bachi maturi (Soppelsa, 2016).

Dopo il picco massimo del XVIII secolo, la produzione di seta in Italia cominciò a calare nel periodo tra le due guerre per scomparire totalmente negli anni Cinquanta, sia a causa dell’industrializzazione e della diffusione delle fibre sintetiche sia a causa della concorrenza estera, in particolare della Cina che ancora oggi è il maggior produttore mondiale.

Il baco da seta funge anche da rimedio nella medicina tradizionale cinese, in forma di “baco da seta rigido”: si tratta del corpo calcificato della larva della quarta o quinta età, morta di calcino, una malattia dovuta all’infezione causata dal fungo Beauveria bassiana. Il baco calcificato si utilizza per risolvere problemi al ventre e di digestione come aerofagia, mal di pancia e sonnolenza.

Oggi la bachicoltura in Italia è quasi scomparsa, poche aziende allevano bachi per una piccola produzione artigianale di nicchia o a scopo didattico. Degna di segnalazione è la “Sezione specializzata per la bachicoltura” di Padova.

Bibliografia

  • Achille Costa, Lezioni di zoologia accomodate principalmente ad uso dei medici, Napoli, Antonio Cons, 1863.
  • Oronzio Gabriele Costa, Francesco Briganti, Achille Costa, Relazioni intorno alla malattia dominata ne’ bachi da seta nell’està del 1858 in risposta al programma nel dì 8 aprile 1858, Napoli, Tip. R. Ghio, 1859 («Real Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali»).
  • Lucio D’Alessandro, San Leucio: l’utopia di un re tra gestione degli spazi e contraddizione dei tempi, 2009.
  • Oreste Dito, La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, Cosenza, editrice Casa del Libro, 1967.
  • Giuseppe e Tommaso Donzelli, Giovan Giacomo Rogieri, Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico del dottore Giuseppe Donzelli, Napoli, Felice Cesaretti, 1726.
  • Ferdinando I, Origine della popolazione di San Leucio e i suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa Ferdinando IV, re delle Sicilie, Napoli, Stamperia Reale, 1789.
  • Samuele Pasquali, Sullo allevamento de’ bachi da seta a cielo scoverto, Atti del Real Istituto d’incoraggiamento alle Scienze Naturali di Napoli (tomo V), Tipografia di Francesco Fernandes, Napoli, 1834.
  • Vincenzo de Ritis, Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, 2 voll., Napoli Stamperia Reale, 1845-1851.
  • Ottavio Soppelsa, Dizionario Zoologico Napoletano, Napoli, D’Auria, 2016.

 

Sitografia

  • http://museodellaseta.com/index.html

 

Immagini

  • in testata: adulto della falena del baco da seta (foto di CSIRO, Wikipedia)
  • in evidenza: bozzoli di Bombyx mori (foto di Biswarup Ganguly, Wikipedia)



Filati dal mare

Matrepperna, nacchera, cozza pinna o semplicemente perna sono i nomi attribuiti alla Pinna nobilis (Linneo, 1758), il bivalve più grande del Mediterraneo: può raggiungere infatti fino a un metro di lunghezza. Si tratta di un organismo sessile, pertanto necessita di strutture per ancorarsi al substrato, che può essere roccia o sabbia. Per tale scopo secerne una fibra grezza di colore marrone dorato da cui si ricava quello che fu uno dei filati più preziosi delle epoche passate, il bisso marino o seta di mare, «che gli antichi si servivano d’una tal lanugine per le loro vesti» (Carducci, 1771).

È però certissimo, che dal ventre dell’animale nasca legata con nervosa sostanza una quasi ciocca di capelli delicatissimi al tatto. Questa si chiama da alcuni Lana da altri Bisso marino, a distintione dal terrestre, fatto di lino, ò bambagia, secondo altri. È di colore castagno scuro, e nelle maggiori pinne si stende alla lunghezza d’un palmo al più. Buonanni, 1681

La biologia di tale mollusco è descritta nella Storia Naturale di Plinio, e ripresa da Buonanni (1681); in particolare si fa riferimento alla simbiosi con un granchio, detto pinnotheres, poiché essa «non è mai senza un compagno», infatti «La pinna si apre, offrendo dall’interno ai pesci minuti il suo corpo, privo di occhi. Subito essi vi si lanciano dentro e, con audacia tanto maggiore di quanto possono fare ciò liberamente, la riempiono. Avendo spiato questo momento, l’altro animale che svolge la funzione di vedetta glielo indica con un leggero morso. Essa, comprimendosi, uccide tutto quello che ha racchiuso e ne assegna una parte al socio.» (Plinio, Nat. His. IX, v. 142).

Pinna nobilis (foto di Fabio Russo)


 
Senza dubbio, ciò che desta più curiosità di questo animale è il ciuffo di filamenti che produce. Il termine bisso, dal greco ἡ βύσσος, indica un tessuto prezioso e raffinato, letteralmente significa lino fino, ed è un termine che compare sin da tempi antichissimi. È citato persino nella Bibbia: nel II libro delle Cronache dell’Antico Testamento, Salomone chiede per la costruzione del tempio che il re di Tiro gli mandi un uomo esperto nei filati di bisso e nella porpora cremisi e violetto; in un altro passo dello stesso libro si descrivono le vesti di bisso dei cantori leviti del tempio. Si dice che Cleopatra si mostrò alla battaglia di Azio (31 a.C.) vestita con velo di bisso, dello stesso materiale erano le tuniche cerimoniali dei sacerdoti d’Egitto e persino il re Davide accompagnò l’Arca dell’Alleanza adornato da una stola di bisso. Ancora, nella Taranto dell’epoca classica erano famose le tarantinidie vesti femminili trasparenti e provocanti dai riflessi dorati, colorazione tipica del bisso marino. In realtà, la letteratura è molto controversa: il termine fu usato per la prima volta per indicare il tessuto derivato dalla penna solo nel 1555, dal naturalista Guillaume Rondelet (1507-1566), e poi lo utilizzò Buonanni nella sua opera sulle conchiglie (1681) distinguendo il bisso marino da quello terrestre. Per questo motivo, il termine bisso nelle autori precedenti al XVI secolo, Aristotele compreso, molto probabilmente non è riferito al filato ricavato dalla fibra dei bivalvi, bensì ad altri tessuti come il lino. È certo però che il bisso marino era molto conosciuto nelle epoche passate e ritenuto uno dei filati più preziosi, soprattutto grazie alle numerose citazioni presenti nella Bibbia, tuttavia non è chiaro a quale tessuto si riferisse il termine.
Il bisso è caratterizzato da un ciuffo di fibre sottili e resistenti, lunghe fino a 20 cm, che si formano attraverso una ghiandola situata nella zona del piede della conchiglia: il piede mobile acquisisce la forma di un canale, in cui scorre la secrezione delle proteine formatesi nella ghiandola del bisso. La secrezione viene convogliata dalla punta del piede su una superficie adeguata all’ancoraggio, caratterizzata da radici di alghe, sabbia, sassi, formando caratteristici punti di adesione a forma di ventaglio. Il diametro della fibra è di 10÷15 μm, simile alle altre fibre animali e vegetali, soprattutto alla seta del bombice del gelso. Anche la struttura chimica della fibra non semplifica la sua identificazione, ma ciò che la caratterizza è la sua sezione di forma ellittica.
Nell’antichità, la città di Taranto era sicuramente uno dei centri puù importanti per la lavorazione del bisso, infatti esso era anche detto lanapenna tarentina (Delizie Tarentine vol. II).

Pinna nobilis, illustrazioni da Testacea utriusque Siciliae di Giuseppe Saverio Poli.

Pinna nobilis, illustrazioni da Testacea utriusque Siciliae di Giuseppe Saverio Poli.


 
Qui, la raccolta dei grandi bivalvi avveniva con l’ausilio di uno strumento citato nella Naturalis Historia di Plinio, il pernilegum, formato da due branche di ferro curve ad arco congiunte ad una pertica di lunghezza proporzionale alla profondità del fondale. Il bioccolo di filamenti si estraeva aprendo la conchiglia e tagliandolo direttamente dal suo piede, in questo modo si utilizzavano i filamenti in tutta la loro lunghezza con la conseguente morte del mollusco. Tale tecnica quindi richiedeva non solo una grande abilità, ma soprattutto un elevato costo, come ricorda Carducci: «La preparazione di questa lanugine poi riesce di gran fatica, oltre d’esser ella di prezzo non lieve; giacché ridotta in tante mappe la soglion vendere i pescatori a’ 16, 18, 20, 24 carlini di nostra moneta la libra, secondo son esse più e men grosse e folte, e di pelo lungo» (Carducci, 1771).
Una volta raccolte, le fibre dovevano subire diversi lavaggi per eliminarne la salinità e renderle più elastiche, essere asciugate all’ombra e pettinate più volte. Per schiarire le fibre, uno di questi bagni era effettuato con urea di vacca (sostituita nei secoli con succo di limone), per poi passare ad ulteriori lavaggi e, infine, una volta tagliate via dalla loro radice, passavano alla fase di filatura e infine alla colorazione. Secondo l’antica tecnica fenicia il prezioso colorante utilizzato per tingere l’altrettanto prezioso filato era la porpora, anche se nelle Delizie Tarentine leggiamo che «Conobbero anche la cocciniglia, con cui colorivano le vesti di bisso» (Carducci, 1771). Si ottenevano così delle vesti talmente costose da poter essere sfoggiate soltanto da personalità di alto rango come imperatori, regine e sacerdoti.
Il declino dei filati di bisso cominciò già al tempo dell’Imperatore Giustiniano (500 d.C.), periodo in cui fu introdotto in Europa il bombice del gelso, meglio conosciuto come baco da seta. In breve tempo la produzione di seta si diffuse in tutta la penisola fino quasi a soppiantare quella del bisso, che aveva costi molto più elevati e richiedeva tecniche più raffinate. La lavorazione del bisso si limitò sempre più a ristrette famiglie di artigiani che realizzavano per lo più pezzi unici riservati a persone o eventi particolarmente importanti. Ciò che rimane di questa tradizione è un piccolissimo polo di lavorazione del bisso in Sardegna, ad oggi attivo per scopi puramente illustrativi e divulgativi.
Testimoni della raffinata manifattura millenaria del bisso di Taranto sono i pochi pezzi custoditi in alcuni prestigiosi musei del mondo. L’oggetto più antico identificato è una cuffietta in maglia risalente al XIV secolo rinvenuta nel 1978 nei pressi della basilica di Sain-Denis, a nord di Parigi, e tuttora custodita al Musée d’art et d’Histoire di Saint-Denis. La maggior parte dei reperti ritrovati sono costituiti da scialli e guanti: al Museum für Naturkunde di Berlino si può ammirare un paio di guanti, probabilmente un dono fatto dal vescovo di Taranto al re Federico Guglielmo III in occasione della sua visita a Napoli nel 1822.
Oggi la Pinna nobilis è un animale in pericolo di estinzione, infatti la presenza del mollusco nei nostri mari si limita a pochi esemplari, pertanto la pesca è vietata. Il progetto “Bisso marino” avviato in Svizzera nel 2004 si propone di censire il numero di esemplari ancora presenti nel Mediterraneo e di cercare quanti più reperti e fonti risalenti alla lavorazione del bisso nella sua epoca d’oro per avvalersi di un patrimonio bibliografico sempre in crescita.

Bibliografia

  • Filippo Buonanni, Ricreatione dell’occhio e della mente nell’osservation’ delle chiocciole proposta a’ curiosi delle opere della natura, Roma, Varese, 1681.
  • Filippo Buonanni, Rerum naturalium historia, Roma, Ex Typographio Zempelliano, 1782.
  • Cataldo Antonio Atenisio Carducci, Delle delizie tarantine. Opera postuma di Tommaso Niccolò d’Aquino patrizio della città di Taranto […] , Napoli, Stamperia Raimondiana, 1771.
  • Diego Lanza, Mario Vegetti, Opere Biologiche di Aristotele, Torino, Unione Tipografico-editrice Torinese, 1971.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
  • Giuseppe Saverio Poli, Testacea utriusque Siciliae eorumque historia et anatome tabulis aeneis illustrata, Parma, Ex Regio Tipographeio, 1791.

 

Sitografia

  • www.muschelseide.ch/it.html

 

Immagini

  • in testata: Tavola XXXVI di Giuseppe Saverio Poli (1791).
  • in evidenza: esemplare giovane di Pinna nobilis (foto di Fabio Russo).



Rosso animale

Gli esseri umani hanno sempre avuto un rapporto speciale con il rosso. Durante il Medioevo l’importanza del colore rosso non si limitava alla sua affinità con la natura ma era apprezzato anche perché raro.
I tintori medievali, abili e preparati, riuscivano a produrre molti colori ma un rosso duraturo era molto difficile da ottenere; infatti, una stoffa tinta di rosso costava dieci volte di più di una colorata con l’azzurro.
La scoperta dell’America aprì le porte a un mondo pieno di ricchezze sconosciute per l’Europa del tempo. Una di loro era la cocciniglia, un piccolo insetto che abbondava sui cactus messicani. Gli spagnoli si riferivano a essa come una delle merci principali importate dal Nuovo mondo, nota come grana o grana cochinilla, la più preziosa dopo l’oro e l’argento. Fino a quel momento il colorante rosso utilizzato in Europa si ricavava dalle radici di robbia (Rubia tinctorum), ma il colore così ottenuto tendeva spesso a scolorire. La cocciniglia era usata come sostanza colorante per la lana e per la seta dagli indigeni del Messico anche prima della scoperta dell’America e, dal 1570, anche l’Europa si convertì all’uso della cocciniglia poiché mostrava un rosso più ricco e duraturo, sebbene queste tinture fossero più costose e ricercate.
Esistono varie specie di cocciniglie che misurano pochi millimetri e, poiché sono strettamente monofaghe, possono essere identificate in base alla specie vegetale su cui vivono. Si tratta di insetti emitteri che si nutrono di linfa perforando la superficie vegetale con un rostro; generalmente preferiscono conifere e succulente e si sviluppano in zone della pianta in cui filtra poca luce, poca umidità e dove c’è poca ventilazione (foglie, fusti giovani e radici). In passato si credeva che le escrescenze formate dalle cocciniglie fossero delle bacche prodotte dalla pianta: «coteste cocciniglie sono escrementi, parti, tuberosità, bitorzoli e galle delle radici, sulle quali stanno» (Targioni Tozzetti, 1867).

Dactylopius coccus (foto di bic44 dal sito www.deviantart.com)

Dactylopius coccus (foto di bic44 dal sito www.deviantart.com)

Grazie a ghiandole diffuse nel corpo dell’animale, la cocciniglia secerne un liquido molto denso e intensamente colorato che usa come involucro per proteggersi dai predatori: in molti casi si tratta di cera pulverulenta o emessa in fili esilissimi reciprocamente intrecciati, in altri la cera secreta si modella in placche o in scudi, in altri ancora la sostanza è una lacca. Questa sostanza raggiunge la massima concentrazione nelle femmine poco prima della deposizione delle uova; in questa fase del ciclo vitale i corpi posso essere schiacciati e resi polvere, così da poter estrarre completamente tutto il colore. L’estrazione si esegue tramite soluzioni acquose contenenti allume di potassio, che permettono di ricavare un colorante che varia dai toni dell’arancio al rosso carminio. Un ettaro di terreno coltivato a cactus produce all’anno circa 300 kg di cocciniglie, equivalenti a 2 kg di colorante (circa 200mila insetti).
In particolare, il rosso carminio in forma di acido carminico si ottiene dai corpi essiccati delle femmine di Dactylopius coccus allevate nelle piantagioni di cactus (Nopalea cochenillifera) dell’America centrale e meridionale. Il suo utilizzo è da far risalire all’arte pittorica della cultura Inca (XIII-XVI sec.).

La molecola di acido carminico


 
In Europa, sin dalla prima metà del XIX secolo erano note le modalità di allevamento delle cocciniglie originarie del Messico e dell’Honduras: grana sylvestra e grana fina (Thouin et al., 1830). Quest’ultima era ritenuta una varietà “perfezionata” della prima poiché più grande e più resistente alle intemperie grazie al suo rivestimento più fitto, assicurando così un raccolto più abbondante. Tuttavia l’allevamento della grana sylvestra era da preferirsi poiché dava un colorante più tenace e le raccolte potevano effettuarsi durante tutto l’anno, infatti era considerata: «per lo coltivatore una risorta, un’indennizzazione, ed è poi d’altronde essenzialmente utile ed anzi necessaria alle manifatture dell’Europa, che l’adopera per la grande e buona tintura» (Thouin et al., 1830).

Coordinate del colore carminio
Carminio

La lacca di Kermes, o kermes lake, si ottiene invece dalla specie Kermes vermilio che vive su una particolare specie di leccio (Quercus coccifera) diffusa nel sud della Francia, in Spagna e in Sicilia. Questo pigmento era conosciuto fin dai tempi degli Egizi e fu utilizzata dai pittori veneziani e fiamminghi dal XVI secolo. Il colorante che se ne ricava fu molto usato soprattutto in epoca medievale, quando la sua diffusione portò al progressivo declino dell’uso della porpora. Basti pensare che dal XV sec., ad opera di Papa Paolo II, le vesti dei cardinali saranno tinte con la lacca di kermes.
In questo caso il principio colorante, detto acido chermesico, si estrae dalle uova che dopo la fecondazione restano adese al corpo della femmina; è necessario quindi provocarne la morte con l’uso di aceto ed essiccarle, acquisiscono così l’aspetto di piccole sfere leggere e friabili di colore scuro. Solubilizzando questi granuli in acqua si estrae l’acido chermesico, colorante che varia dai toni dell’arancio fino al color porpora, a seconda che il liquido sia acidificato o alcalinizzato.
In epoche antiche il chermes si usava spesso per dare un fondo rosso alle stoffe, che venivano poi sopratinte con vera porpora e serviva anche, con l’indaco, per fare le tinte di falsa porpora, senza usare le conchiglie, come testimoniato da Plinio il Vecchio. La tintura delle stoffe era realizzata per mezzo di mordenti che uniti all’acido davano diverse sfumature di rosso: l’allume dava un color cremisi, lo stagno un rosso scarlatto e il ferro un color porpora; ma il colore puro della cocciniglia «era di un rosso gajo, vivo, e rilucente, accostandosi al color del fuoco» (Carducci, 1771).

si tinge col tirio quello che è già tinto di scarlatto col coccum, per avere l’hysginum. Il coccum della Galazia, granelli rosseggianti […] o quello che si trova nei dintorni di Emerita in Lusitania, è nel massimo pregioPlinio IX,140

Il nome del color cremisi, quindi, deriva proprio dall’utilizzo del colorante chermes: dall’arabo qirmizī (‘prodotto da insetti’), tramite il latino medievale cremesinus o carmesinus usato per indicare la specie Kermes vermilio (appartenente agli insetti) dai quali si estrae il pigmento.

Coordinate del colore cremisi
Cremisi

In passato si è fatto ampio utilizzo di questi coloranti sia nel campo tessile sia nelle opere pittoriche: «Fra i Kermes ve ne sono dei coloranti e per questo richiesti in commercio e usati nelle arti» (Targioni Tozzetti, 1867). I coloranti estratti dalle cocciniglie sono oggi usati nella preparazione di prodotti cosmetici (dentifrici, rossetti) e alimentari (bibite, liquori, dolci) a basso pH grazie alla loro resistenza a luce e calore. Le industrie alimentari e cosmetiche contrassegnano il rosso cocciniglia con le sigle E120 e CI75470.

La Vergine e il Bambino (La Madonna con l’iris) dipinto di Albrecht Durer (1471-1528)

La Madonna con gli iris, dipinto di Albrecht Dürer (1471-1528) presso la National Gallery di Londra.


 
Il rosso cremisi è anche il colorante usato per l’Alchermes (o Alkermes), un liquore sciropposo di color rosso rubino composto da alcol, zucchero, scorza di arancia, acqua di rose e numerose spezie quali cannella, chiodi di garofano, vaniglia, cardamomo e anice. La sua origine, come la sua etimologia, risale agli arabi e fu da loro introdotto in Europa quando invasero la Spagna. Dopo poco arrivò in Italia e prese piede in Toscana perché ritenuto “elisir della lunga vita”; era prodotto dalle suore fiorentine dell’Ordine di Santa Maria dei Servi, fondato nel 1233. L’Alchermes ebbe molto successo soprattutto alla corte medicea di Firenze, tanto che era conosciuto come il liquore de’ Medici.
L’Alchermes era considerato un medicinale naturale dal potere alchemico-mistico: in Sicilia era utilizzato contro i “vermi da spavento” (tenie). Quando un bambino, per esempio, cadeva e si faceva male, come rimedio gli venivano somministrati uno o due cucchiai di questo liquore, a seconda del livello di spavento, che secondo i detti popolari, poteva far sviluppare i vermi nei bambini. L’Alchermes originale dell’Officina Farmaceutica di Santa Maria Novella, prodotto e commercializzato ancora oggi nella sua caratteristica bottiglia di vetro, risale al XV secolo e la ricetta è stata formulata nel 1743 da Fra’ Cosimo Bucelli, all’epoca direttore dell’Officina. L’Alkermes è stato riconosciuto prodotto tradizionale della Regione Toscana ed è usato sia come liquore da dessert sia come ingrediente nella preparazione di molti dolci.

 

Bibliografia

  • Philip Ball, Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore, Milano, BUR Rizzoli, 2004.
  • Cataldo Antonio Atenisio Carducci, Delle delizie tarantine libri IV. Opera postuma di Tommaso Niccolò d’Aquino patrizio della città di Taranto […], Napoli, Stamperia Raimondiana, 1771.
  • Mauro Matteini, Arcangelo Moles, La Chimica nel Restauro. I materiali dell’arte pittorica, Firenze, Nardini, 2007.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
  • Adolfo Targioni Tozzetti, Studii sulle cocciniglie, «Memorie della Società italiana di Scienze Naturali e del Museo Civico di storia naturale di Milano», III (1867).
  • Thouin, Parmentier, Tessier, Huzard, Silvestre, Bosc, Chassiron, Chaptal, Lacroix, De Perthuis, Yvart, Décandolle, Du Tour, Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica ossia Dizionario ragionato ed universale di agricoltura, vol. XX, a cura di Tondi, Gussone, Costa, Paci, Napoli, Minerva, 1830.

 

Immagini

  • in testata: manto in seta colorato con rosso carminio appartenente a Ruggero II di Sicilia, XII sec. (da wikipedia)
  • in evidenza: i colori carminio e cremisi



Sacra, magnifica, rara: la porpora

La porpora è una sostanza colorante che deriva da un liquido bianco-giallastro secreto dalla ghiandola del mantello di alcuni gasteropodi marini contenente un cromogeno incolore (purpurina) che sotto l’azione di un enzima (purpurasi) dà per ossidazione il prodotto colorato.
Le specie che forniscono il colore più puro appartengono alla famiglia Muricidae, e sono: Hexaplex trunculus (Linnaeus, 1758), Bolinus brandaris (Linnaeus, 1758), Stramonita haemastoma (Linnaeus, 1767), Ocenebra erinaceus (Linnaeus, 1758) e Nucella lapillus (Linnaeus, 1758).
Nonostante la porpora si estraesse dall’epoca dei Fenici, solo nel 1858 lo zoologo francese Henry de Lacaze-Duthiers identificò l’organo deputato alla produzione della porpora: questa ghiandola dalla forma di un pisello si trova nella superficie interna del mantello nei pressi del retto e secerne una sostanza vischiosa, densa, bianco-giallastra, di odore nauseante, probabilmente utilizzata dal mollusco per difendersi dai predatori.
La purpurina da quando è emessa passa per varie tinte, gialla, verde, violacea, finché assume il colore definitivo. Cataldo Antonio Atenisio Carducci, il commentatore delle Delizie Tarantine, scrive: «Il colore estratto dalla porpora era d’un rosso bruno, che tirava nel color del sangue rappreso» (Carducci 1771).

la molecola di porporina

la molecola di porporina (da wikipedia)

 

In Italiano per color porpora s’intende un rosso cupo e non un viola, come spesso impropriamente tradotto dalla parola inglese purple. Sebbene purple sia il nome del pigmento estratto dal murice e originariamente si riferisse al color porpora, oggi ha assunto un significato differente che corrisponde in italiano al colore “viola”; il termine inglese violet, invece, indica il colore violetto corrispondente a una lunghezza d’onda di circa 380-450 nm.

Coordinate del colore porpora

Nell’antichità, a partire dai Fenici, la porpora rappresentava un colorante molto raro e pregiato; si trattava infatti di una tintura indelebile e data la scarsa quantità di porpora estratta da ogni mollusco, occorrevano migliaia di individui per la tintura di una singola tunica! L’industria della porpora ebbe una tale importanza economica e storica, che con il colore del prodotto (lat. phoinix ‘rosso’, dal gr. φοῖνιξ) si connotò il nome stesso dei Fenici (Astour 1965), inoltre «La miglior porpora dell’Asia è a Tiro, dell’Africa a Meninge e lungo la costa oceanica dei Getuli; la migliore dell’Europa in Laconia» (Plinio IX, 127).
La scoperta della porpora è narrata in un mito: il dio fenicio Melquart (equivalente al greco Eracle), invaghitosi della ninfa Tiro, inventò il procedimento di estrazione della porpora per tingere con questo meraviglioso colore una veste e conquistarla.
L’estrazione del colorante avveniva con un processo lungo e che esigeva grande abilità. Dopo avere pescato i molluschi, forse con nasse, erano trasferiti in ampie vasche, infrante le conchiglie e lasciati a macerare esposti all’aria, in modo da provocare l’ossidazione del leuco-colorante, facendolo diventare di un viola rossastro. A questo punto si diluiva il colore con acqua di mare, secondo l’intensità della gradazione desiderata, dal rosso cupo al violetto. Una volta ottenuto il colorante vi s’imbeveva la stoffa, generalmente lana oppure lino, prima ancora di tesserla. I tessuti più costosi erano quelle la cui lana era stata passata per due bagni consecutivi: la dibapha di Tiro (dal gr. δίς ‘due volte’ e βάπτω ‘tingo’) «che nel prezzo giunse ad eguagliar l’oro» (Carducci 1771).

Purpurae vivunt annis plurimum septenis Plinio IX,125

Gli scavi hanno messo alla luce, alla periferia di centri urbani fenici, enormi cumuli di gusci infranti, i resti della lavorazione della porpora, che avveniva fuori degli abitati per il cattivo odore emanato dal prodotto durante le prime fasi della lavorazione. Nella città di Taranto ancora fino alla prima meta del XX sec., si ricordava una collina detta Monte dei quecciuli formata dai gusci dei molluschi risultanti dalla lavorazione della porpora.
Per tutto il mondo classico, la porpora e le stoffe così tinte rimasero connesse con l’immagine del lusso e del potere civile e religioso, di cui furono il simbolo. Nella prima età imperiale romana la porpora, anche per i suoi altissimi prezzi, era riservata agli imperatori e alle alte cariche religiose, militari e di governo: una balza di porpora (clavus) sovrapposta alla tunica indicava l’appartenenza, se stretta (angusticlavium), all’ordo equester, se larga (laticlavium), all’ordo senatorius. Anche i magistrati, come distinzione del loro ufficio, portavano una striscia di porpora sulla toga.

Da Ricreatione dell’occhio e della mente nell’osservatione delle chiocciole (Buonanni 1681)

Da Ricreatione dell’occhio e della mente nell’osservatione delle chiocciole (Buonanni, 1681)

Il suo fascino rimase intatto per secoli, fino alle ultime fasi del mondo antico quando ormai era riservata solo all’imperatore e alla sua famiglia. L’imperatore d’Oriente Teodosio II (401-450 d.C.), come si legge nel suo famoso codice, stabilì l’invio di funzionari presso le manifatture di porpora fenicie per vigilare contro ogni frode: «Ogni persona, di qualsiasi sesso, rango, mestiere, professione o famiglia dovrà astenersi dal possedere quel genere di prodotto, che è riservato solo all’Imperatore e alla sua Famiglia» (Pedrazzi, 2011)
Sin da tempi antichissimi la Chiesa ha utilizzato la porpora quale colore sacro e per identificare i suoi cardinali. Ciò si riconduce alla passione di Cristo, quando Egli fu rivestito di un mantello di tale colore: in tal caso il colore rosso voleva evocare, per derisione, la porpora regale. L’abito corale dei cardinali è di color rosso porpora, da cui il nome di “porporati”, a simboleggiare la disponibilità anche al martirio.
L’utilizzo della porpora ha avuto seguito nel corso dei secoli fin nel Regno di Napoli (sec. XIII-XIX). Qui i murici di dimensioni medio-piccole erano solitamente chiamati sconciglio, inclusi quelli utilizzati per la produzione della porpora. In particolare si distinguevano: lo sconciglio gentile (Bolinus brandaris), così ironicamente chiamato a causa delle sue spine pungenti; lo sconciglio tufaretta (Hexaplex trunculus); la tufarella (Stramonita haemastoma) (Soppelsa, 2016).
Oltre che nella tintura delle stoffe, la porpora era utilizzata anche nella pittura e nell’arte libraria: il residuo del colorante rimasto nelle caldaie dopo la tintura delle stoffe era spesso utilizzato come colore per la pittura nell’antichità classica e per tingere le pergamene dei codici, opportunamente fissato su farina fossile.
Oggi la porpora è caduta in disuso presso i popoli del bacino del Mediterraneo, mentre è ancora usata da qualche popolazione indigena dell’Oriente asiatico.

 

Bibliografia

  • Michael C. Astour, The Origin of the Term “Canaan”, “Phoenician”, and “Purple”, «Journal of Near Eastern Studies», vol. 24 (1965), pp. 346-350.
  • Filippo Buonanni, Ricreatione dell’occhio e della mente nell’osservation’ delle chiocciole proposta a’ curiosi delle opere della natura, Roma, Varese, 1681.
  • Filippo Buonanni, Rerum naturalium historia, Roma, Ex Typographio Zempelliano, 1782.
  • Cataldo Antonio Atenisio Carducci, Delle delizie tarantine libri IV. Opera postuma di Tommaso Niccolò d’Aquino patrizio della città di Taranto […], Napoli, Stamperia Raimondiana, 1771.
  • Simona Fantetti – Claudia Petracchi, Il dizionario dei colori: nomi e valori in quadricromia, Bologna, Zanichelli, 2001.
  • Francesco Ghiretti, La riscoperta della porpora ad opera di Bartolomeo Bizio, in La Porpora, realtà e immaginario di un colore simbolico, a cura di Oddone Longo, Atti del convegno di studio Venezia, 24 e 25 ottobre 1996, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1998, pp. 17-27.
  • Diego Lanza – Mario Vegetti, Opere Biologiche di Aristotele, Torino, Unione Tipografico-editrice Torinese, 1971.
  • Tatiana Pedrazzi, La lavorazione della porpora e dei tessuti, in I Fenici in Algeria. Le vie del commercio tra il Mediterraneo e l’Africa Nera, a cura di Lorenza-Ilia Manfredi e Amel Soltani, Bologna, BraDypUS Communicating Cultural Heritage, 2011.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).

 

Immagini

  • in testata: le specie di gasteropodi usate per la produzione della porpora (foto di H. Zell).
  • in evidenza: Hexaplex trunculus (foto di Hans Hillewaert).