Federico II: stupor mundi

Il natale di ogni grande personaggio è sempre stato accompagnato da auspici e aneddoti che ne predicevano le gesta future. Così le circostanze intorno alla nascita di Federico II Hohenstaufen contraddistinsero subito l’eccezionalità della sua figura. Egli venne alla luce il 26 dicembre del 1194 a Jesi, dopo nove anni di matrimonio infecondo tra Enrico VI di Svevia, figlio di Federico Barbarossa, e Costanza d’Altavilla, erede dei sovrani normanni dell’Italia meridionale; subito fu celebrato quale riunificatore dei due regni, di Germania e di Sicilia, e portatore di una nuova età dell’oro.

Per silvas, per humum, per mare tutus eo.
Non aquilam volucres, modo non armenta leonem,
Non metuent rapidos vellera nostra lupos.
Nox ut clara dies gemino sub sole diescit,
Terra suos geminos sicut Olimpus habet.
Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti

Il suo nome completo, Federico Ruggero, ereditato rispettivamente dal nonno paterno e materno, sottolineava la legittima pretesa di entrambi i troni. Nel 1196 fu eletto per volontà del padre re dei Romani, un titolo che lo indicava come futuro reggente del Sacro Romano Impero, sebbene per consacrare la carica ci fosse bisogno dell’incoronazione da parte del papa; nel 1198, otto mesi dopo la morte di Enrico VI, Federico fu eletto re di Sicilia. Rimasto orfano anche della madre l’anno successivo, crebbe sotto la severa tutela di Innocenzo III.
Il pontefice sperava che nessuno avrebbe mai riunito la corona imperiale con quella del regno di Sicilia, poiché questo avrebbe significato stringere lo Stato della Chiesa in una morsa, accerchiandolo. Nominò dunque imperatore Ottone IV di Brunswick, combinando invece per lo svevo un proficuo matrimonio con Costanza d’Aragona nel 1209. Il papa però non fece i conti con le mire espansionistiche del nuovo imperatore, che rivendicò i diritti imperiali sui territori italiani, richiamandosi all’antiquum ius imperii, e perfino la corona di Sicilia.
Federico, diventato padre del suo primogenito Enzo, si trovò a scegliere se affrontare la battaglia per impadronirsi della corona paterna e assumere l’eredità degli Svevi o occuparsi del regno di Sicilia, nel quale non aveva ancora imposto per intero la sua egemonia. Decise di partire per la Germania, dove ottenne l’appoggio di molti principi tedeschi.
Finalmente il 9 dicembre 1212 fu incoronato imperatore nel duomo di Magonza. L’impegno di Federico a mantenere la separazione tra regno e impero fu sigillato il 12 luglio 1213 con la Bolla d’Oro o promessa di Eger, in cui venne sancito anche il voto del sovrano a intraprendere una crociata in Terrasanta.
Lo scontro decisivo che segnò la sconfitta di Ottone ebbe luogo a Bouvines nel 1214, grazie anche all’aiuto del re di Francia. Nel 1215 Federico ricevette una seconda incoronazione ad Aquisgrana, ultima resistenza al suo dominio, dove peraltro erano conservate le spoglie di Carlo Magno.
Tornato in Sicilia, che aveva lasciato otto anni prima, l’imperatore poté dedicarsi a consolidare le istituzioni nel regno. Durante il suo governo si impegnò a realizzare in Italia meridionale una forte monarchia statale, limitando ogni forma di governo autonomo, grazie anche all’attuazione di un centralismo amministrativo. Le leggi che sancivano le linee guida del suo Stato centralizzato sono note come Costituzioni di Melfi, pubblicate nel 1231 nell’omonima città.
Per circondarsi di funzionari e collaboratori efficienti il 5 giugno 1224 istituì con editto formale a Napoli la prima Universitas studiorum statale e laica della storia d’Occidente.  Vi studiarono personaggi quali Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca.
Il rafforzamento del potere di Federico II nell’Italia meridionale allarmò il nuovo papa Gregorio IX, che appena eletto nel 1227 scomunicò l’imperatore, rimproverandogli di non aver mantenuto il giuramento che lo obbligava a partire per la crociata. In realtà l’impresa fu ostacolata nell’agosto dello stesso anno da un’epidemia che colpì l’esercito e che costrinse lo stesso Federico a trovare ristoro nei bagni di Pozzuoli.
Una volta guarito partì per la Terrasanta, dove nel 1229 riuscì a concludere un accordo decennale con il sultano d’Egitto al-Kāmil, che restituiva ai cristiani Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, mentre ai musulmani riservava le aree considerate sacre per la loro religione.

Federico II di Svevia incontra il sultano d’Egitto al-Kamil alle porte di Gerusalemme, dalla cronaca figurata di Villani (Biblioteca Vaticana, Roma)

I rapporti burrascosi tra Federico e Gregorio IX furono sanati nel 1230 con la pace di San Germano, che da una parte invalidava la scomunica ma dall’altra prevedeva larghe concessioni al papa. L’accordo non servì a placare la lotta tra potere temporale e potere spirituale, così all’elezione del pontefice Innocenzo IV seguì una spaccatura tra i comuni dell’Italia centro-settentrionale di orientamento ghibellino e quelli che invece si definivano guelfi. Federico cercò di ricondurre tutta la penisola sotto la sua autorità, ma subì importanti sconfitte; si spense per una patologia intestinale il 13 dicembre del 1250.
Passato alla storia come uno dei personaggi che illuminò il Medioevo, a Federico fu associato l’appellativo di stupor mundi, espressione derivante dal linguaggio militare romano che consacrava le doti di un generale. La personalità eclettica e l’attitudine a governare furono anche il frutto della sua formazione. L’istruzione di Federico avvenne in Sicilia, terra a cui lui sentì di appartenere molto più della Germania. I precettori del sovrano furono molti, e questo fattore contribuì a forgiare non solo un’educazione adatta al suo rango, ma anche una mentalità aperta e un grande amore per l’arte, la letteratura e la scienza.

Uomo di grande cultura anche dal punto di vista linguistico, padroneggiava tedesco e francese, e conosceva l’arabo e l’ebraico. Circa un decennio dopo l’incoronazione imperiale decise di integrare l’azione di stabilizzazione istituzionale del proprio dominio  ad un ambizioso progetto culturale: la creazione di una letteratura in volgare che competesse con le forme più avanzate della produzione letteraria ma che al tempo stesso fosse dotata di proprie peculiarità. Nacque così la Scuola poetica siciliana, un’originale rielaborazione del modello provenzale trobatorico, attraverso la selezione di contenuti e scelte stilistiche, in cui però la lingua usata è il volgare, un siciliano depurato e intenzionalmente raffinato. Tra gli illustri protagonisti di questa corrente letteraria troviamo gli appartenenti  alla magna curia dell’imperatore, tra cui Pier delle Vigne e Iacopo da Lentini. Fu proprio quest’ultimo presumibilmente a inventare una nuova forma metrica, il sonetto, composto da quattordici endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Per quanto i temi trattati, la Scuola siciliana si differenzia dal modello provenzale in quanto argomento esclusivo è l’amore; non un’esperienza reale per il poeta ma stilizzata, rivolta ad una dama che viene quasi divinizzata. La politica era una tematica sapientemente evitata all’interno di una corte dove il potere del sovrano non poteva essere messo in discussione.
Sempre nell’ottica di un controllo capillare del territorio va inserita l’instaurazione di una fitta rete di insediamenti che costituiscono il sistema castellare federiciano. Castelli e palazzi erano costruiti non solo sulla base di un reale programma di difesa militare ma anche a scopo propagandistico, come segno visibile del potere dello svevo. Emblema dell’impegno del sovrano in ambito architettonico è sicuramente Castel del Monte, realizzato nel 1240. In realtà è in dubbio se l’edificio sia stato fondato ex novo o se si sia trattato di restaurazione di un precedente stanziamento normanno, fatto sta che il rigore dell’impostazione planimetrica ne ha reso un elemento unico dello scenario dell’Italia meridionale, tanto da essere inserito nel Patrimonio UNESCO nel 1996. Apparentemente isolato, il castello sorgeva nei pressi di alcuni nuclei insediativi dell’epoca. L’ubicazione in cima ad una collina, costantemente inondato dal sole che con i giochi di luce e ombra ne esaltava le forme maestose, non poteva esimersi dal dare una connotazione quasi sacrale alla struttura, accrescendo di pari passo la grandezza del suo fondatore. Federico fu uno dei personaggi che meglio valorizzò il concetto di “arte al servizio del potere”.
Federico II - De arte venandi cum avibusAperto ad una ampia gamma di interessi, dalla matematica all’astronomia, dalle scienze naturali alla filosofia, sicuramente tra le sue passioni primeggiava la caccia, in particolare l’arte della falconeria, su cui scrisse il celebre trattato De arte venandi cum avibus, opera purtroppo rimasta incompiuta.
Il manoscritto originale è andato perduto, in compenso sono presenti diverse redazioni, le più note delle quali sono denominate dalla critica redazione “breve”, che comprende solo due libri, e redazione “lunga”. Le copie sono ascrivibili a due dei figli di Federico II, rispettivamente Manfredi, avuto da Bianca Lancia, e il primogenito Enzo.
Il trattato si compone di sei libri. Il libro I è un manuale di ornitologia in cui gli uccelli vengono suddivisi in acquatici, terrestri e intermedi. Ogni specie è accompagnata da una minuziosa descrizione delle sue caratteristiche biologiche e morfologiche. Ci si sofferma sulla nidificazione e sulla cova, ma contemporaneamente anche sulla presentazione degli organi interni ed esterni, con particolare attenzione alle ali. Numerosi sono i paragrafi dedicati al piumaggio e alle particolarità del volo; è presente anche una dissertazione sul fenomeno migratorio. Il libro II è dedicato più propriamente alla falconeria, quindi tratta delle modalità di cattura dei falchi e della loro nutrizione; si descrivono le pratiche di addomesticamento, come la cigliatura, ovvero la cucitura delle palpebre, e l’impiego degli attrezzi per l’addestramento. Mentre i primi due libri trattano argomenti generici gli altri quattro si addentrano sempre più nella materia, approfondendo specifiche pratiche. In particolare il libro III delinea le complesse fasi dell’addestramento del falco al logoro (attrezzo generalmente costituito da un’ala di uccello o un mazzetto di penne), sia a piedi, sia a cavallo, quindi alla traina, e infine si occupa dell’addestramento dei cani da caccia. I libri IV, V e VI sono riservati alla caccia alla gru, all’airone e agli anatidi adoperando rispettivamente il girfalco Falco rusticolus, il falco sacro Falco cherrug e il falco pellegrino Falco peregrinus.

Intentio vera nostra est manifestare ea quae sunt sicut sunt
Friderici Romanorum Imperatoris Secundis, De arte venandi cum avibus

Non si può fare a meno di notare che l’opera racchiude una duplice natura: da una parte è un meticoloso compendio di caccia, dall’altra è un prezioso trattato ornitologico, molto diverso dai lavori precedenti poiché basato sull’osservazione e su un approccio sperimentale. Federico non si esime dal correggere le lacune dei modelli che aveva conosciuto attraverso la costruzione di veri e propri esperimenti, come quelli riguardanti l’abilità degli avvoltoi di riconoscere le carcasse di animali con il solo olfatto.
L’esperienza diretta è anche alla base delle splendide raffigurazioni; tra le più belle quelle che illustrano il volo.
Per lo svevo inoltre l’arte della falconeria ha molto in comune con l’attività del sovrano; ecco dunque che l’opera diventa di ampio respiro, poiché nel ritratto che ci fornisce del perfetto falconiere si rispecchiano i principi della sua linea politica.
La complessità ma soprattutto la modernità del De arte venandi ne ha fatto sicuramente uno degli scritti più significativi del Medioevo, non subito apprezzato dai contemporanei ma poi universalmente riconosciuto, tanto che ancora oggi rappresenta un baluardo a cui si rivolgono studiosi e appassionati.

Bibliografia

  • Ernst Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlino, Klett-Cotta, 1987.
  • Fulvio Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione: letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce (FR), Nuovi segnali, 2005.
  • Giuseppe Staffa, I grandi imperatori. Storia e segreti, Newton Compton, 2015.
  • Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti a cura di G.B. Siracusa, Roma, Istituto Storico Italiano, 1906.



Tommaso Campanella e l’eresia sensuale della natura

Di Tommaso Campanella si è tanto narrato: si è detto che questo visionario frate domenicano fosse demente e che la sua più importante opera, La Città del Sole, fosse una fantasticheria, ripresa dalle idee di Platone e dalla sua Politeia e bloccata in una sorta di atemporalità. Tuttavia, la vita di questo singolare frate, che ben aveva inteso le leggi degli equilibri naturali, appare sorretta da una eccezionale forza di volontà e da una inesauribile lotta contro la Chiesa per la sopravvivenza di due idee: libertà e sapienza.

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Francesco Cozza, Ritratto di Tommaso Campanella, Collezione Camillo Caetani, Sermoneta (Latina)

Campanella nacque a Stilo, in Calabria, da famiglia poverissima, nel 1568, e mostrò, sin da giovanissimo, una eccezionale inclinazione per gli studi. A soli tredici anni entrò nell’ordine domenicano, vestendo il saio bianco e divenendo novizio per allontanarsi dalla realtà opprimente della sua esistenza giovanile. Tuttavia  le sue opere lo condussero presto sulla strada dell’eresia, procurandogli condanne e persecuzioni. A Napoli venne imprigionato nel 1591 per le teorie esposte nell’opera Philosophia sensibus demonstrata, in cui sosteneva le tesi del naturalismo ispirate al pensiero di Bernardino Telesio. Fu liberato nel 1592 e si iscrisse all’Università di Padova, ma nel 1595, fu nuovamente imprigionato per eresia e torturato. Campanella ritornò a Stilo nel 1597 e qui organizzò una congiura antispagnola per realizzare una repubblica teocratica della quale egli stesso sarebbe stato legislatore e capo (Firpo, 2006). Nel 1599 la congiura venne scoperta e fu portato nuovamente a Napoli per un nuovo processo. Per sfuggire alla condanna capitale si finse pazzo, anche sotto le peggiori torture, ma fu comunque condannato al carcere perpetuo e irremissibile, nel 1602, e costretto a restare in prigione per 27 anni. Non smise mai di scrivere anche rinchiuso nell’“orrida fossa” di Castel Sant’Elmo, in Castel dell’Ovo e in Castel Nuovo. Nel 1626 fu liberato e trasferito al Sant’Uffizio di Roma, ma nel 1633, a Napoli, fu scoperta una congiura contro il viceré organizzata da Tommaso Pignatelli, suo discepolo. Campanella non si sentì più al sicuro a Roma e si rifugiò in Francia, accolto da Luigi XIII, dove, continuando i suoi studi, attese la pubblicazione delle sue opere. Qui morì il 21 maggio del 1639, di una morte preannunciata da segni avversi.

Si è soliti collocare Tommaso Campanella nel novero dei filosofi appartenenti al naturalismo rinascimentale, una corrente del pensiero occidentale in cui l’uomo si percepisce come parte del mondo, si distingue da esso per imporre una propria originalità, ma al contempo si radica nella natura, riconoscendola come proprio dominio.

L’indagine naturale è elemento primario e fondamentale nella filosofia del Rinascimento. In essa si possono riconoscere tre fasi principali: la magia, la filosofia della natura e la scienza.

Il  primo Rinascimento è ideatore di una visione umanistica che decanta la libertà e la dignità dell’uomo, ma si assiste comunque a una ripresa del naturalismo come riflessione autonoma sulla natura, anticipata, ad esempio, dal Poliziano, o dal pensiero amoroso del Boccaccio. Nel 1500 l’indagine naturale è una chiave indispensabile per l’attuazione dei progetti umani nel mondo; in altre parole, essa rappresenta la rinascita dell’uomo come essere inserito nella natura.

Questo movimento filosofico considera l’uomo l’artefice della natura (homo faber) e, di conseguenza, punta a uno studio naturalistico del mondo. Ma anche il neoplatonismo è incline allo studio della natura, dando origine alla filosofia naturale, ma predilige un’altra via, quella della ‘pratica’ della magia: quest’arte cerca formule e procedimenti comprensibili da adoperare come chiave di decifrazione dei misteri naturali, donando, in questo modo, all’uomo un potere sconfinato sulla natura.

Come nei primi filosofi, il mondo viene interpretato eliminando la fittizia contrapposizione tra spirito e materia: la natura è nuovamente intesa come parte di un unico organismo vivente, nel quale il soffio vivificatore non opera assemblando parti più piccole fino ad arrivare agli organismi più complessi (come prevedeva l’atomismo). Al contrario di questa visione, la modificazione della natura è resa possibile da un principio intelligente, precedente all’esistenza della materia.

In questo quadro filosofico, Tommaso Campanella fu portatore di un sensismo cosmico, visione che prevede una natura senziente, ovvero capace di percepire, in quanto animata dall’Idea che la rende viva.

La magia rinascimentale è caratterizzata dall’universale animazione della natura, mossa da forze simili a quelle che agiscono nell’uomo, armonizzate da un ‘accordo’ universale. Si apre quindi all’uomo la possibilità di penetrare nei più segreti recessi della natura e di riuscire a dominarne le forze mediante gli incantesimi. La magia diviene ricerca di formule che fungano da chiave d’interpretazione per i misteri naturali.

Nella filosofia naturale, che già fa la sua comparsa in alcuni degli stessi sostenitori della magia, affermandosi per la prima volta in Bernardino Telesio, viene abbandonato quest’ultimo presupposto. La natura è sempre considerata una realtà vivente, ma sostenuta da specifici principî; la scoperta di questi principî diventa compito della ricerca filosofica. È chiaro che la filosofia della natura è destinata a rompere i ponti con la magia e con l’aristotelismo, dal momento che si propone di interpretare la natura con la natura aprendo la porta alla vera e propria indagine scientifica.

La scienza è, perciò, il risultato ultimo del naturalismo del Rinascimento. La riduzione naturalistica viene condotta al suo punto estremo: la natura non ha niente a che fare con l’uomo, né con l’anima, né con la vita; è un insieme di cose che si muovono meccanicamente; e le leggi che regolano il meccanismo sono quelle della matematica. La scienza riduce quindi la natura a pura oggettività misurabile, la stacca dall’uomo e la rende estranea alla sua costituzione e ai suoi interessi; solo così la apre veramente al suo dominio per farne il regnum hominis. Si è, perciò, conclusa l’opera di separazione della magia dalla ricerca scientifica, ma questa visione distaccata dalla magia non fu chiaramente il fondamento della filosofia e degli studi di Fra’ Tommaso Campanella, né quello di Giordano Bruno.

Il naturalismo di Giordano Bruno è stato definito come religione dionisiaca dell’infinito, mentre si può dire che il naturalismo di Campanella sia, invece, il fondamento di una teologia politica o di una politica teologica.

Philosophia sensibus demonstrata, 1591- frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

Philosophia sensibus demonstrata, 1591 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

Nell’opera Philosophia sensibus demonstrata, pubblicata a Napoli nel 1591, Campanella ribadì la sua adesione al naturalismo di Telesio, inquadrato però in una cornice neoplatonica, per la quale le leggi della natura non mantengono più la loro indipendenza, come in Telesio, ma sono spiegate dall’azione creatrice divina, dalla quale deriva anche l’ordine che governa l’universo: «chi regola la natura è quel glorioso Iddio, sapientissimo artefice, che ha provveduto in modo da non reprimere le forze della natura, nella quale tuttavia agisce con misura» [Tommaso Campanella, Philosophia sensibus demonstrata].

Napoli, e il suo ambiente filosofico, naturalistico e magico della seconda metà del 1500, spinsero Campanella, allora ospite dei marchesi del Tufo, ad approfondire gli interessi neoplatonici e scientifici, che in quel periodo erano strettamente congiunti agli studi alchemici e magici: «scrissi due opere, l’una del senso, l’altra della investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato con Giovanni Battista Della Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della simpatia e dell’antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato. Scrissi poi il De investigatione rerum, perché mi pareva che i peripatetici ed i platonici portassero i giovani per una via larga ma non diritta alla ricerca della verità» [Tommaso Campanella, Syntagma de libris propriis, p. 14].

Syntagma de libris propriis, 1642 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

Syntagma de libris propriis, 1642 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

Il De sensu rerum et magia fu dedicato al granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici nel 1592, ma fu sequestrato dal Sant’Uffizio, poi riscritto in italiano nel 1604 e, infine, tradotto in latino nel 1609, per essere pubblicato finalmente nel 1620, a Francoforte. Campanella rimproverava a Democrito e ai materialisti di voler far derivare l’ordine del mondo dall’azione degli atomi, che non hanno sensibilità, e agli aristotelici la mancata iniziativa divina nella costituzione della natura.

Secondo Campanella, i tre principi, ovvero materia, caldo e freddo, dei quali è formata la natura, sono frutto della creazione divina:

«Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza e Amore […] e dentro a quello pose la materia, che è la mole corporea […] Nella materia poi Dio seminò due principi maschi, cioè attivi, il caldo e il freddo, perché la materia e lo spazio sono femmine, principi passivi. E questi maschi, da codesta materia divisa, combattendo, formano due elementi, cielo e terra, che combattendo tra loro, dalla loro virtù fatta languida nascono i secondi enti, avendo per guida della generazione le tre influenze, la Necessità, il Fato e l’Armonia, che portano l’Idea» [Tommaso Campanella, Poesie filosofiche, Madrigale 6].

Se si considera ogni cosa in una visione olistica e organica ci si rende conto che nulla muore davvero: «muore il pane e si fa chilo, questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervi, ossa, spirito, seme e patisce varie morti e vite, dolori e piaceri» [Tommaso Campanella, De sensu rerum et magia, II, 26].

Campanella, guardando la natura in questa visione, dà ad ogni elemento naturale la sensibilità e un sistema di percezione proporzionato alla sua capacità di conoscere. Se gli animali sentono è segno che essi sentono gli elementi o i principî dai quali sono costituiti.

«Or se gli animali, per consenso universale, hanno sentimento, e da niente il senso non nasce, è forza dire che sentano gli elementi, lor cause, e tutte, perché quel che ha l’uno all’altro convenire si mostrarà. Sente dunque il cielo e la terra e il mondo, e stan gli animali dentro a loro come i vermi dentro il ventre umano, che ignorano il senso dell’uomo, perché è sproporzionato alla loro conoscenza picciola.» [Ib., I, 1].

De Sensu Rerum et Magia, 1620 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

De Sensu Rerum et Magia, 1620 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)


Ma da elementi semplici e privi di spirito non può generarsi un organismo complesso, quindi esiste una forza (divina) che consente l’animazione universale, la vita e la percezione del mondo circostante.

«Ma dicono: il sole non è animale né pianta, e fa animali e piante; et è sottile e mobile e bianco, e pur indura e addensa il luto, e immobilita, e annegrisce gli Etiopi sotto il Cancro e Capricorno dove più dimora; e il fuoco riscalda, e la fredda neve scalda la mano e ingrassa la terra; e il salnitro caldo le bevande affredda; e la paura, non fredda, affredda l’uomo; e il vivo dà morte all’altro vivo; e molti simili producono li dissimili; e ogni cosa si fa di quello ch’essa non è. Dunque di cose non senzienti le sensitive nascer ponno.
Rispondo che le cose che tra cielo e terra si fanno ciò che hanno ricevono da questi due elementi. Però l’animale non è sole, ma terra in cui il sole, operando, spirito produsse fra durezze, di cui esalar non potendo organizzò la mole e fece atta alla vita loro, come si dirà poi. Talché la pianta e l’animale hanno spirito, calore, sottilezza e moto dal sole, e materia dalla terra con l’arte del senso solare figurata; ma non hanno cosa, però, che non sia nelle cause, benché non in quel modo ch’è nelle cause.» [Ib., I, 2].

Ma come si riuniscono o si separano gli elementi naturali quando vengono a generarsi gli organismi e gli ambienti terrestri? A questo punto, per l’Autore, interviene un consenso che le cose naturali hanno fra loro e, tramite questo consenso, l’anima del mondo, che è uno strumento divino, le dispone tutte a un unico fine e le lega insieme, nonostante le loro dissomiglianze.

Sentono dunque tutti. Di più il fuoco, vincendo parte di terra, l’assottiglia e se ne va in alto al suo consimile cielo focoso, e la terra, posta in su, con impeto al basso fugge; e come ogni animale fugge i contrarii e va alli suoi simili e alla sua tana, e gli uomini con gli uomini vivono, lupi con lupi, pesci con pesci, il medesimo si vede tra li corpi magni. Tutti dunque sentono; altrimenti il mondo sarebbe caos, perché il fuoco non andaria in alto, né l’acqua al mare, né le pietre caderiano in giù, ma ogni cosa dove fusse posta si rimanerebbe, non sentendo la sua destruzione tra contrarii, né la conservazione tra simili. Tommaso Campanella, De sensu rerum et magia, I, 5

Sembra che Campanella, quindi, in questo passaggio, prepari delle premesse per alcuni dei contemporanei temi affrontati dalla biologia della conservazione: l’accoppiamento selettivo, l’insorgenza di barriere riproduttive tra specie diverse e l’importanza dei comportamenti innati ai fini adattativi.

La sensibilità lega tutti gli esseri animati, altrimenti, se essi non fossero legati, tutto il mondo sarebbe il dominio del caos. Ma questa sensibilità determina altre forze, tra cui la conservazione delle somiglianze e delle differenze, quindi quella forza che Campanella chiama “conservazione tra simili”, fondamentale per l’affermazione dell’ordine nel mondo.

«Dunque, veracissimo argomento del loro senso è l’ordine del mondo, e il producimento delle cose, e la controversia e pugna similissima a quella degli animali senzienti. Anzi bisogna dire che gli animali dalli corpi primi abbiano questa virtù di sentire; e gran bestialità è d’Averroè che chiama gli elementi corpi imperfetti, e queste misture di essi, deboli e mezzi consumati, perfetti, perché imperfetti sono, non avendo le qualità soprane, come gli elementi, e tanto più se son misti di cose contrarie repugnanti tra loro, onde interna infelicità et esterna sentono.» [Ib., I, 5].

Interessante, a questo punto, è un altro argomento introdotto dall’Autore: il ruolo che l’istinto animale gioca nella conservazione dei simili. Nella sua visione, esso è un palese esempio di impulso derivante da un’unica natura sensibile che, organicamente, mira alla conservazione del suo equilibrio, preservando ogni sua parte.

«Molti s’affaticano provare che ci sia istinto senza ragione e senza senso, poiché la calamita tira lo stupido insensato ferro, et essa sempre al polo si volge con mirabile istinto; e la donnola per naturale istinto, contra sua voglia, si mette in bocca al rospo et è divorata; e il tauro, quando fugge, sotto la ficaia s’affrena da sé, arrivando ad incontrarsi; e i delfini amano gli uomini; e molti animali predicono le pioggie e venti senza esser profeti; e il gallo, piccolo animale, spaventa il leone; e altri esempi tali adducono. Alli quali rispondo che tutti questi esempi additano il senso e consenso di tutte le nature, e che esso istinto sia di senziente natura impulso.» [Ib., I, 8].

Inoltre, riavvicinandosi al pensiero filosofico dei primi sapienti ellenici, per i quali la sostanza primordiale era materiale e vivente, l’Autore esprime una visione in cui la materia ha in se stessa animazione, movimento e sensibilità come forze dinamiche, affermando, quindi, una forma di ilozoismo.

Il regno animale assume per Campanella una particolare importanza nella conoscenza, in una visione perfettamente regolata e ordinata dell’esperienza umana, motivo per cui questo regno viene disposto in uno dei gironi della Città del Sole, in cui sette mura dividono la città in sei gironi, ognuno dei quali è designato per rappresentare una diversa sfera del sapere.

Civitas Solis, 1623 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

Civitas Solis, 1623 – frontespizio (Archivio ILIESI CNR)

Nel primo girone si trova una minuziosa cartina geografica in cui sono rappresentati i riti, le diverse tradizioni e le lingue di tutti i popoli e nel quale possono rivelarsi all’osservatore anche tutte le conoscenze geometriche e matematiche. Nel secondo girone sono elencate le principali nozioni di chimica, geologia e la descrizione geografica dei luoghi della terra. Poi, nel terzo, sono racchiuse le informazioni che riguardano la fauna appartenente al mondo marino e al mondo vegetale e, in più, la descrizione di tutte le erbe e delle loro proprietà curative. Nel quarto girone sono descritte tutte le specie di uccelli, rettili e insetti. Nel quinto compaiono, invece, tutti gli animali terrestri, come per esempio i mammiferi. Nel sesto girone, infine, si trovano elencate le arti umane inerenti alla meccanica e sono indicati gli inventori, le arti, le nozioni riguardanti le armi e le scienze fisiche.

Per Campanella la conoscenza è possibile soltanto grazie all’azione diretta o indiretta dei sensi e non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella intuitiva.  L’uomo deve, quindi, percepire se stesso come parte della stessa natura che deve conoscere, e per farlo deve usare la sua sensibilità.

Tutti gli esseri che sentono sono confinati nell’immediatezza del sensus inditus – cioè del senso innato – e del proprio modo di conoscere – o cognitio sui -, legato alla propria sensibilità e al proprio sistema di percezione, ma, avendo ricevuto dalla divinità la capacità di conservarsi, di conoscere la propria funzione e la propria natura, manifestano le primalitates – o principi – divine (cioè Potentia, Sapientia, Amor). L’uomo, però, si distingue dagli altri esseri naturali dal momento che, nella sua natura, accoglie e manifesta una spinta verso l’intuizione intellettuale che si fissa nella mente dei singoli uomini. Tale facoltà dell’uomo, tuttavia, non lo separa dalla visione unitaria del cosmo.

Se la Sapienza permette alle cose naturali di conoscere il loro fato, è l’Amore a infondere l’Armonia nella natura ed è compito del naturalista, del mago e del filosofo comprendere tale Armonia per tendere alla divinità e farsi simile ad essa. «Beato chi legge nel libro della natura, e impara quello che le cose sono, da esso e non dal proprio capriccio, e impara così l’arte e il governo divino, facendosi di conseguenza, con la magia naturale, simile e unanime a Dio» [Tommaso Campanella, De sensu rerum et magia, II, 26].

Nello stesso tempo, giungendo a tale conoscenza, l’uomo si rende capace di vivere in Armonia con la divinità, conservando la perfezione di tutto ciò che è e che, in quanto perfetto e capace di sensibilità, è degno di essere considerato sacro e quindi di essere conservato, ad ogni costo.
 

Bibliografia

  • Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia, a cura di Filiberto Walter Lupi, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2003.
  • Tommaso Campanella, De sensu rerum et magia, Del senso delle cose, trad. Archivio ILIESI – CNR.
  • Tommaso Campanella, Poesie filosofiche, Archivio ILIESI – CNR.
  • Tommaso Campanella, La Città del Sole, a cura di Piero Di Vona e Cristina Coccia, Edizioni di Ar, Padova, 2014.
  • Tommaso Campanella, La Città del Sole, a cura di Luigi Firpo, Laterza, Roma-Bari, 2006.

 

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Fabio Colonna linceo

Nacque a Napoli nel 1567 da Artemisia Frangipane e da Girolamo, appartenente a un ramo napoletano della nobile famiglia romana. Fabio intraprese un’educazione classica incoraggiata dal padre, antiquario, filologo ed editore dei frammenti del poeta latino Ennio. Frequentò quindi gli studi in giurisprudenza presso l’Università di Napoli dove si laureò in utroque iure nel 1589, tre anni dopo la morte del padre. Debole di salute e affetto da epilessia, fu spinto dalla sua condizione ad abbandonare la professione giuridica e a concentrarsi sulla medicina classica, da Ippocrate a Galeno, alla ricerca di rimedi farmacologici per il suo male. Studiò poi i vegetali che componevano tali rimedi attraverso le opere di Plinio, Dioscoride, Teofrasto, riuscendo pian piano a curare il suo male servendosi della valeriana silvestre. Nacque così la sua passione per le piante e per la natura in generale, che lo spinse ad avvicinarsi ai botanici napoletani più rinomati dell’epoca tra i quali Bartolomeo Maranta e Ferrante Imperato, frequentatori del ricco orto botanico di Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601).
Fu allievo di Giambattista Della Porta, che lo avviò, insieme allo stesso Ferrante Imperato, ad una concezione unitaria della natura come maestra di esperienze e campo di osservazioni, da compiere senza eccessiva sottomissione alle affermazioni dei medici classici. Certamente i consigli e gli stimoli di Imperato furono determinanti per la composizione dei Φυτοβάσανος sive plantarum aliquot historia (Napoli, 1592). Per tale opera, Colonna stesso preparò delle finissime incisioni in rame che fece stampare a sue spese; esse mostravano le piante rinvenute nei dintorni di Napoli, confrontate con le descrizioni degli antichi ma senza alcun criterio sistematico. In quest’opera Colonna dimostra di essere un fine osservatore botanico poiché annota, con una precisione ben più accurata di altri illustratori, l’importante fenomeno dell’eterocarpia in Calendula officinalis, allora nota con il nome di Clymenon Dioscoridis.
A partire dal 1593, intraprese numerosi viaggi per espandere le sue conoscenze in campo naturalistico e continuare le sue osservazioni botaniche, che costituirono il fondamento della sua opera più importante: Minus cognitarum stirpium aliquot ac etiam rariorum nostro coelo orientium Εκϕρασις […] stampata a Roma nel 1606. L’opera dedicava la maggior parte della trattazione alle piante, ma vi era una sezione interamente dedicata al regno animale. Ancora una volta, Colonna stesso si occupò della pubblicazione completa di tavole in rame, ma purtroppo non ebbe molto successo, almeno fino alla seconda edizione del 1616 che, arricchita dal trattato De purpura, vantò una larga diffusione.
Porpora
A partire dal 1612 il Nostro entrò a far parte dell’Accademia dei Lincei a Napoli dove strinse rapporti con Federico Cesi, Francesco Stelluti e persino Galileo Galilei, rinsaldando il rapporto con Giambattista Della Porta. Fu Federico Cesi a dirigere l’Accademia fino al 1630, anno in cui Colonna fu segnalato dai Lincei come suo successore, cosa che non accadde. In Accademia, accanto all’attività editoriale, Colonna riesce a entusiasmarsi per le tecniche che stravolgono il modo di concepire l’osservazione scientifica: prima il telescopio poi il microscopio stimolano profondamente i suoi interessi.
apiDi certo Colonna si prodigò molto a favore delle iniziative dell’Accademia. Nel 1625 curò la stesura di due tavole l’Apiarium e la Melissographia, aventi come soggetto le api avvalendosi di osservazioni al microscopio. Nel gennaio del 1626 scrisse a Cesi: «Et però mi son posto a disegnar il rostro dell’ape napolitana, qual è diversa forsi dalla romana che n’accennai al signor Stelluti, che l’avesse meglio osservata».
Partecipò al lavoro di edizione e di arricchimento per la parte botanica e mineralogica, del Tesoro messicano (Rerum medicarum Novae Hispaniae Thesaurus […], Roma 1628 e 1651), di cui scrisse il decimo ed ultimo libro sui minerali (Annotationes et additiones, pp. 843-899) e corresse varie parti, oltre a rivedere la nomenclatura. L’opera fonda il confronto tra la flora americana e quella europea su una visione unitaria della natura, organica architettura di cui l’uomo con l’attenta osservazione indaga la sapienza nascosta, che era certamente condivisa da Colonna.
Contemporaneamente al trattato De purpura pubblicò il De glossopetris dissertatio come appendice della seconda edizione della Minus cognitarum stirpium pars altera Parte II (1616), uno dei primi trattati di paleontologia in cui si definisce scientificamente l’origine animale della glossopetra e delle conchiglie fossili. In tale opera, infatti, Colonna dimostrò che la glossopetra non è una lingua di serpe pietrificata ma un dente di squalo, inoltre descrisse alcune conchiglie fossili del Matese e di Andria in Puglia accennando alla sedimentazione per strati giungendo a differenziare i depositi marini, lacustri e fluviali con i fossili ivi contenuti.
dente di squalo
Inventò uno strumento musicale a cinquanta corde simile al clavicembalo, il pentecontachordon, descritto ne’ La sambuca lincea, ovvero dell’istromento Musico Perfetto (1618). Con questo trattato, egli descrive uno strumento composto da 31 tasti per ottava, con l’intento di perfezionare quello ideato dal suo concittadino Scipione Stella, l’Archicembalo, soprattutto per quanto riguarda l’accordatura.
Botanico, zoologo, fisico, geologo e incisore, Colonna ha espresso la sua costante attività in uno studio paziente della natura, giungendo a uno studio dei caratteri dei vegetali quali fiore e seme, come si rileva dalla lettura di Εκϕρασις altera, in cui istituì molti generi di piante rimasti ancora oggi invariati, nonostante la natura poco sistematica delle sue trattazioni. Il suo contributo fu fondamentale nell’identificazione di molte piante, grazie alle splendide incisioni in rame di vegetali al naturale o di particolari ingranditi, da lui realizzate per la prima volta a scopo scientifico.
Morì a Napoli il 25 luglio 1640 e fu sepolto nella chiesa dell’Annunziata.

Bibliografia

  • Augusto De Ferrari, Colonna, Fabio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 27, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982. (http://www.treccani.it/enciclopedia/fabio-colonna_(Dizionario_Biografico)/).
  • Patrizio Barbieri, La sambuca lincea di Fabio Colonna e il tricembalo di Scipione Stella, in Atti del Convegno Internazionale di Studi, Napoli 11-14 aprile 1985, di Domenico Antonio D’Alessandro e Agostino Ziino, Roma, Ed. Torre d’Orfeo, 1987.
  • Fabio Colonna, Φυτοβασανος (Phytobasanos) sive plantarum aliquot historia, Napoli, Giovanni Giacomo Carlino e Antonio Pace, 1592.
  • Fabio Colonna, Minus cognitarum rariorumque nostro coelo orientium stirpium ekphrasis […], Roma, Giacomo Mascardi, 1616.
  • Fabio Colonna, De purpura ab animali testaceo fusa, Roma, Giacomo Mascardi, 1616.
  • Fabio Colonna, De glossopetris dissertatio, in De corporibus marinis lapidescentibus quae defossa reperiuntur, di Agostino Scilla, Roma, Antonio De Rubeis, 1747.
  • Fabio Colonna, La sambuca lincea, ovvero dell’istromento musico perfetto, Napoli, Costantino Vitale, 1618.
  • Fabio Colonna, Annotationes et additiones, in Rerum medicarum novae Hispaniae thesaurus, seu Plantarum animalium mineralium Mexicanorum historia, di Francisco Hernández, Nardo Antonio Recchi, Joannes Terentius, Napoli, Johann Faber, 1649.

 

Immagini

  • in testata: frontespizio del De purpura.
  • in evidenza: Fabio Colonna, ritratto giovanile.



Plinio il Vecchio

Gaio Plinio Secondo (Caius Plinius Secundus), conosciuto come Plinio il Vecchio, fu scrittore, scienziato e naturalista. Si può con sicurezza collocare la sua nascita tra il 23 e il 24 d.C., al contrario è incerto il luogo, anche se i più concordano per Como (Novocomum).
Entrò verso la metà del I secolo nella carriera equestre e comandò a lungo uno squadrone di cavalleria sul Reno. Tornato in Italia, divenne consigliere di Vespasiano e poi di Tito. Fu quindi a capo della flotta di Miseno.
Erudito e acuto osservatore, è presentato come un uomo dedito allo studio e alla lettura; suo nipote Plinio il Giovane racconta che iniziava le sue ricerche prima dell’alba e per l’intera giornata non si dedicava ad altro, concedendosi ben poche distrazioni. «Nessun libro è così cattivo da non giovare per qualche aspetto» [Plinio, Epistolae III, 5], questa la filosofia che lo spingeva a consultare accuratamente qualsiasi testo.
La sua propensione allo studio era però accompagnata da un’insaziabile curiosità per i fenomeni naturali; fu perciò colpito dalla ricchezza faunistica e floristica del Golfo di Napoli. Il suo spirito naturalistico gli si rivelò fatale nel 79 d.C., con l’eruzione del Vesuvio; volendo studiare da vicino il fenomeno, e accorso anche in salvataggio delle vittime, perse la vita tra le esalazioni del vulcano, nei pressi di Stabia.
Tra i testi a lui attribuiti ricordiamo un trattato sull’arte di tirare stando a cavallo (De iaculatione equestri), frutto della sua esperienza come ufficiale di cavalleria, due libri sulla vita di Pomponio Secondo (De vita Pomponi Secundi), Bella Germaniae, che racconta i suoi trascorsi in Germania, tre libri sull’arte dell’orazione (Studiosus), otto libri sulla grammatica (Dubius sermo), trentuno libri di storia (A fine Aufidii Bassi). Nessuno di questi volumi è però giunto fino a noi.

Mosaico con pesci dalla Casa del fauno di Pompei (Napoli, Museo Archeologico).

Mosaico con pesci dalla Casa del fauno di Pompei (Napoli, Museo Archeologico).


 
L’opera più importante di Plinio è la Naturalis Historia, pubblicata nel 77 d.C. Il termine historia è da intendersi come “indagine” per esplicitare le conoscenze nelle Scienze Naturali. Scopo dell’autore non è proporre i risultati di ricerche personali o illustrare nuove conoscenze, quanto piuttosto dare un quadro d’insieme del sapere del proprio tempo. Egli stesso afferma: «Il nostro scopo è di descrivere i fenomeni evidenti e non quello di indagare le cause oscure» [Plinio, Naturalis Historiae XI, 8].
L’Historia è composta di trentasette volumi. Il primo libro contiene il sommario generale dell’opera e l’elenco delle fonti; i volumi dal II al VI trattano di cosmologia e geografia, quelli dal VII all’ XI di antropologia e zoologia; segue un’ampia sezione sulla botanica (vol. XII-XXVII), a cui si collegano medicina e farmacologia (vol. XXVIII-XXXII). Gli ultimi quattro libri sono dedicati alla mineralogia e alla storia dell’arte.
L’esposizione degli argomenti non rispecchia un’analisi scientifica, ma piuttosto segue un modello di educazione tipicamente romano, che si propone di impartire un’istruzione pratica o un insegnamento utile per la vita. L’opera è il risultato di un’enorme mole di lavoro di preparazione condotto su migliaia di volumi, per cui rappresenta anche un prezioso archivio che racchiude informazioni su numerosi autori la cui opera non ci è pervenuta. La pluralità di fonti, che si traduce in uno stile non sempre coerente, ne ha fatto oggetto di aspre critiche; l’opera viene, infatti, accusata di peccare di originalità [Koyré, 2002].
Al contrario la visione del mondo di Plinio traspare attraverso gli excursus che si concede. In particolare all’inizio del settimo libro, dedicato all’antropologia, l’autore si abbandona a un radicale pessimismo, con la presenza di una natura crudele e dell’uomo che, succube dei suoi capricci, è destinato a un’esistenza infelice.

Cominceremo a buon diritto dall’uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso, in cambio di doni cosi grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l’uomo più una buona madre o una crudele matrigna.Plinio, Naturalis Historiae Historiae VII, 1

Con l’ottavo libro si apre invece la sezione più brillante dell’Historia, dedicata al mondo faunistico. La zoologia degli animali terrestri è trattata nel suddetto volume, il nono è invece dedicato alle creature acquatiche; nel decimo sono descritti gli uccelli, segue poi una digressione sulla riproduzione negli animali e nell’uomo; nell’undicesimo la prima parte è dedicata agli insetti e la seconda alla descrizione delle parti del corpo dell’uomo e di altri animali.

From Pliny the Elder, The Natural History, Book VIII, Ch. 11-12. Paesaggio con vari animali e altre creature (es. elefante, lucertola, drago, rinoceronte, stambecchi, giraffe e cammello). Incisione di Abraham de Bruyn (1578).

Paesaggio con vari animali e altre creature (es. elefante, lucertola, drago, rinoceronte, stambecchi, giraffe e cammello). Incisione di Abraham de Bruyn (1578).


 
Per i libri zoologici vale più che per gli altri la constatazione che non siamo di fronte a trattati scientifici, ma a un’historia nel suo senso più lato. La dissertazione delle specie non procede secondo una classificazione ordinata ma piuttosto in base ai richiami dello stesso autore durante la trattazione. Gli aneddoti sono molto ricorrenti. Dei vari animali è descritto l’aspetto, le loro abitudini, particolari rituali d’accoppiamento o di lotta, i loro nemici naturali e a volte le interazioni con l’uomo.

Anzi, sullo stesso Nilo c’è anche una tribù ostile a questa belva [coccodrillo], che prende il nome dall’isola di Tentira, sulla quale abita. Sono uomini piccoli di statura, ma dal coraggio ammirevole, almeno in questa lotta che è loro abituale. […] Perciò a quella sola isola i coccodrilli non si avvicinano e sono messi in fuga dall’odore di quegli uomini, come i serpenti da quello degli Psilli. Plinio, Naturalis Historiae Historiae VIII, 38

Acrobata sul coccodrillo (marmo 75x38 cm, Londra, British Museum)

Acrobata sul coccodrillo (marmo 75×38 cm, British Museum).


 
Numerosi sono i richiami ad Aristotele e alla Historia animalium, di cui Plinio segue le orme abbandonando però il rigore scientifico a vantaggio di un aspetto più propriamente letterario e folclorico.
La trattazione spazia da animali locali a quelli esotici, importati dall’Asia o dal continente africano, fino a giungere a creature fantastiche, quali l’unicorno e il basilisco.
«Identica è la proprietà del serpente basilisco. Lo genera la provincia della Cirenaica, non è più lungo di dodici dita e lo si riconosce per una macchia bianca sulla testa, a mo’ di diadema. Col suo sibilo mette in fuga tutti i serpenti, e non muove il suo corpo, come gli altri, attraverso una serie di volute, ma avanza stando alto e diritto sulla metà del corpo. Secca gli arbusti non solo toccandoli, ma col suo soffio, brucia le erbe, spezza le pietre: tale potenza ha questo pericoloso animale. Una volta, cosi si credette, un esemplare fu ucciso da un uomo a cavallo con un’asta e dal veleno salito attraverso di essa non soltanto il cavaliere, ma anche il cavallo furono annientati» [Plinio, Naturalis historiae VIII, 33].
Il fascino dell’opera risiede proprio nell’oscillare continuamente fra realtà e leggenda e nell’atteggiamento imprevedibile dell’autore, che spazia dalla mitologia a una revisione più critica e razionale dei luoghi comuni dell’epoca.
Plinio è anche una miniera inesauribile d’informazioni sui prodotti alimentari e sui costumi romani. Tra gli autori latini sicuramente è quello al quale si devono maggiori notizie sulle varie specie di viti e di vini conosciuti, trattate dettagliatamente nel XIV volume dell’Historia. In ambito botanico offre invece numerosi spunti su alberi da frutto, piante odorose e tecniche agricole, non tralasciando poi attività quali la caccia o l’apicoltura.
Sono quindi spiegate le conoscenze pratiche necessarie all’uomo che interagisce col mondo che lo circonda, ed è proprio l’interazione uomo-natura, il filo conduttore della vastità di argomenti trattati dall’autore. La sua Naturalis Historia è un’opera enciclopedica, letta e studiata nei secoli successivi, dal Medioevo al Rinascimento, che oggi rimane un documento fondamentale delle conoscenze scientifiche dell’antichità.

Morte di Plinio il Vecchio.

Morte di Plinio il Vecchio.


 

Bibliografia

  • Mary Beagon, Scienza greco-romana. Plinio, la tradizione enciclopedica e i Mirabilia, Storia della Scienza, Treccani, 2001, (www.treccani.it/enciclopedia/scienza-greco-romana-plinio-la-tradizione-enciclopedica-e-i-mirabilia_(Storia-della-Scienza)/).
  • Alexandre Koiré, Scritti su Spinoza e l’averroismo, Milano, Edizioni Ghibli, 2002.
  • Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, vol. II: Antropologia e zoologia (Libri 7-11), a cura di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1983 («I Millenni»).
  • Gaio Plinio Cecilio Secondo, Epistularum Libri Decem, a cura di Roger Mynors, Oxford Classical Texts, Dallas, Clarendon Press, 1963.
  • Johannes Sambucus (János Zsámboky), Icones veterum aliquot, ac recentium medicorum, philosophorumque elogiolis suis editae, Opera I. Sambuci, Antwerpen, ex officina Christophori Plantini, 1574.

 

Immagini

  • in testata particolare di L’eruzione del Vesuvio 24 agosto 79 d.C. (Pierre Henri de Valenciennes, 1813 – Musée des Augustins, Toulouse). Plinio il vecchio morente sulla spiaggia di Stabiae.
  • in evidenza Plinio, incisore Peter van der Borcht (tratto da Icones veterum aliquot, ac recentium medicorum […], 1574).



Giambattista Della Porta: lo scienziato alchimista

La città di Napoli diede i natali a Giovanni Battista Della Porta, o Giambattista o Giovambattista Della Porta, nel 1535 (anche se alcune biografie, dalle incerte fonti, indicano come luogo di nascita Vico Equense).Della Porta morì, sempre a Napoli, il 4 febbraio 1615 e di lui si può affermare che fu naturalista, filosofo, alchimista e scienziato, come pure ricercatore e inventore nel campo dell’ottica e del magnetismo. Fu anche commediografo e pubblicò 14 commedie in prosa, una tragicommedia, una tragedia e un dramma liturgico, che divennero fonte di molte opere nel corso del XVII secolo.

Giovanbattista Della Porta. (incisione di Nicolas de Larmessin, 1682 - Credit: Wellcome Library, London. http://wellcomeimages.org)

Giambattista Della Porta (incisione di Nicolas de Larmessin, 1682. Credit: Wellcome Library, London, http://wellcomeimages.org)

Terzo figlio di Nardo Antonio Della Porta e di una patrizia della famiglia Spadafora, nacque in una famiglia di antica nobiltà che portava impressa, sul suo stemma, una porta aperta. Ricevette le basi della sua formazione culturale in casa, secondo gli usi dei giovani aristocratici. Musica, ballo ed equitazione furono tra le arti che era solito studiare, ma le sue notevoli – e innate – capacità furono presto evidenti nell’àmbito delle scienze naturali e della filosofia.
La famiglia risiedeva presso il palazzo Della Porta a Napoli, nei pressi di Piazza Carità, lungo Via Toledo (attualmente al civico 368), una villa a due porte (la cui costruzione iniziò nel 1546), ma possedeva anche la villa delle Pradelle a Vico Equense. Tra i suoi maestri si annoverano il classicista, alchimista e naturalista calabrese Domenico Pizzimenti (traduttore di Democrito) e i filosofi e medici Donato Antonio Altomare e Giovanni Antonio Pisano.
L’epoca in cui Della Porta condusse la sua esistenza terrena fu segnata da eventi storici ostili alla sua natura e agli studi che intendeva approfondire e che, però, lo resero una personalità singolare e brillante all’interno del panorama degli scienziati italiani del Cinquecento. Tra gli eventi che sicuramente ebbero ripercussioni sulla sua vita si può includere la riattivazione, nel 1542, del tribunale dell’Inquisizione e l’avvio della Controriforma, dopo il Concilio di Trento nel 1545.
Della Porta pubblicò la sua prima opera nel 1558, la Magiae naturalis, in quattro libri e, in quegli stessi anni, fondò un’accademia detta dei Secreti (Academia Secretorum Naturae), che accoglieva studiosi della natura che si riunivano nel palazzo dei Della Porta.
Quando, nel 1583, si diffuse la voce che finalmente era stato scoperto il segreto della trasmutazione dei metalli, il cardinale Luigi d’Este, che in quegli anni si serviva delle ricerche di Della Porta, chiese allo scienziato napoletano di condurre indagini sulla pietra filosofale. L’Inquisizione napoletana, nel 1586, dopo aver ricevuto una denuncia anonima, effettuò un’inchiesta su Della Porta, il quale riuscì a non ricevere danno dalle indagini. Gli fu soltanto ordinato di “astenersi da giudicii astronomici” [Muraro, 1978] perché, probabilmente, sospettato di determinismo astrologico e di aver fama di indovino e astrologo.

Frontespizio della Magiae naturalis ed. del 1591.

Frontespizio della Magiae naturalis (ed. 1591).

Jean Bodin (1529-1596), filosofo e legislatore francese, tra i principali teorici e sostenitori dell’assolutismo monarchico, nell’opera La Démonomanie des Sorciers (1580) lo compromise in una polemica contro Johannes Wier (1515-1588), demonologo e medico olandese, il quale, in De praestigiis daemonum et incantationibus ac veneficiis (1563) sosteneva che il volo notturno e il sabba delle streghe fossero ingannevoli allucinazioni e non effetti reali di un potere diabolico ultraterreno esercitato dalle streghe. Wier criticava, quindi, la persecuzione delle streghe per tali ragioni da parte dell’Inquisizione, citando però Della Porta, che nella Magiae naturalis raccontava di aver ricevuto da una strega la formula per preparare un unguento mediante il quale era possibile stimolare uno stato onirico, al termine del quale si poteva ricordare nitidamente sia il volo che il sabba. Bodin accusava quindi Della Porta di divulgare la ricetta di un tossico di evidente compromissione diabolica, prodotto da “grasso di bambini dissotterrato dalle tombe”. Per via di Bodin, Della Porta fu costretto a eliminare, dalla sua opera, la storia dell’unguento delle streghe. Grazie a importanti protezioni la Magiae naturalis non fu, però, mai inclusa nell’Indice dei libri proibiti.
Nel 1589 pubblicò nuovamente la Magiae naturalis, nel frattempo diventata un’opera in venti libri, in cui si delineavano le istruzioni per comprendere la sua concezione magico-alchemica del mondo, molto simile a quella di Paracelso.
Dopo la pubblicazione di quest’opera ebbe una pubblica disputa e numerosi incontri con il filosofo Tommaso Campanella, che, di tale disputa, dichiarò: «scrissi due opere, l’una del senso, l’altra della investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato con Giovanni Battista Della Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della simpatia e dell’antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato.» [Tommaso Campanella, Syntagma de libris propris, p. 14]
Gli scritti di Della Porta diedero, inoltre, notevoli contributi nel campo dell’ottica e del magnetismo. Il capitolo sull’ottica di Magiae naturalis (Libro XVII) fu infatti molto apprezzato da Johannes von Kepler (1571-1630), che lo sostenne anche nel 1610, intervenendo in una polemica sulla realizzazione del cannocchiale. Pochi studiosi di fisica sanno, in realtà, che la preziosa invenzione potrebbe, probabilmente, appartenere a Giambattista Della Porta, ma la questione della paternità dell’idea del cannocchiale è tuttora irrisolta. Una delle opere più conosciute di Della Porta, De humana physognomonia, fu terminata nel 1583 e può essere descritta come la più rivelatrice, insieme alla Magiae naturalis, della sua “visione scientifica”. Si trattava di un saggio relativo allo studio delle particolarità individuali dell’animo umano, e quindi dell’indole, mediante analogie tra i tratti somatici delle persone e le caratteristiche degli animali richiamati, per somiglianza, dai volti umani.

De humana physognomonia

De humana physognomonia

Nel 1603, il principe Federico Cesi fondò l’Accademia dei Lincei, che non conobbe fortuna a causa dell’opposizione del principe padre. Cesi, però, incominciò una fitta corrispondenza con Della Porta, nell’anno in cui l’Editore Sottile pubblicava il suo trattato di astrologia sulla Coelestis physiognomia. L’anno successivo Cesi si recò a Napoli, dove conobbe, oltre a Della Porta, anche Ferrante Imperato, Bartolomeo Maranta, il medico naturalista Donato Antonio Altimaro e Fabio Colonna, futuro Linceo. Nel 1610 nacque, su basi più ampie, la ricostituita Accademia dei Lincei, alla cui direzione fu destinato proprio Della Porta, che doveva essere a capo di un Linceo napoletano che non vide mai la luce. L’anno successivo nacque anche l’Accademia degli Oziosi, di cui Della Porta fu fondatore, con il fine di sviluppare lettere e scienze. Fino alla sua morte egli lavorò alla costruzione di lenti e specchi di forma parabolica che avrebbero dovuto migliorare le prestazioni del cannocchiale.
Tralasciando le invenzioni nel campo della fisica, l’àmbito scientifico in cui Della Porta si rese abile rivelatore della Natura, fu, però quello dell’alchimia e della fisiognomica. Per fisiognomica deve intendersi la disciplina che si prefigge di sondare la natura delle persone, in termini di predisposizioni del carattere, in relazione alle loro sembianze. Nell’antichità già Aristotele sosteneva, in un passaggio degli Analitici primi (2.27) che: «È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l’anima vengono cambiati assieme da influenze naturali.»

Giambattista della Porta, La bellezza di Venere (in Della Fisonomia dell'huomo).

Giambattista della Porta, La bellezza di Venere (in Della Fisonomia dell’huomo).

Nella cultura rinascimentale la fisiognomica era diffusa tanto da appassionare Leonardo, Michelangelo e Pomponio Gaurico. La fisiognomica di Della Porta, però, presentava aspetti piuttosto singolari e intriganti, se confrontata con la fisiognomica moderna, risalente alle teorie già influenzate dal pensiero pre-positivista di Johann Kaspar Lavater (1741-1801). Eppure sembra che lo stesso Lavater fosse stato ispirato dal ricercatore napoletano e dal coevo filosofo inglese Thomas Browne (1605-1682), che, nell’opera Religio medici, sosteneva che: «[…] nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima.» Probabilmente simili teorie furono suggerite a Browne proprio dalla lettura e dallo studio degli scritti di Della Porta, in particolare del saggio Della celeste fisonomia.
Della Porta era risolutamente convinto della correttezza della ‘dottrina delle firme’ (o ‘teoria delle impronte’), ovvero della Signatura rerum, una forma di conoscenza alchemica ideata da Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto anche Paracelso (1493-1541), medico e alchimista svizzero che, per la prima volta, aggiunse alla dottrina dei quattro elementi una nuova teoria per spiegare la composizione e i mutamenti della materia. Tale teoria contemplava tre nuovi principi, ripercorrendo i tre stadi dell’opus alchemicum: lo zolfo (elemento della nigredo), il mercurio (elemento dell’albedo) e il sale (che doveva costituire la tangibilità, la cenere residua, quindi probabile elemento della rubedo) ed era contrassegnata dalla presenza di spiriti della natura responsabili delle sue trasformazioni. Secondo la teoria delle impronte si sarebbe potuta mettere in pratica la legge tradizionale dell’analogia naturale, cardine della cosmogonia ermetica, fondata sulla interconnessione tra microcosmo dell’individuo e macrocosmo dell’universo. In questa concezione, gli astri, l’uomo e i regni della Natura sono interdipendenti secondo leggi astrologico-magiche di simpatia e antipatia.

Attratto dalle antiche teorie sulla signatura, Giambattista Della Porta compilò con passione un altro studio: Phytognomonica (1588). In quest’opera egli confermò che tutte le cose esistenti in natura sono in correlazione reciproca mediante le loro proprietà segrete, che si manifestano nella forma. Con l’osservazione di queste caratteristiche è possibile comprendere le corrispondenze, le affinità e le opposizioni. Piante o organi animali simili a uno specifico organo umano ‘simpatizzano’ con esso e, di conseguenza, potranno guarirne, con la magia naturale, ogni disturbo o malanno.

La seconda parte di Phytognomonica teneva conto della somiglianza della pianta con varie parti del corpo umano: la forma designa la parte del corpo umano che va curata con tale pianta e che troverà giovamento dalla cura.
Le analogie di cui parlava Della Porta, che si manifestano nel dominio materiale come concordanze e somiglianze morfologiche, indicano a chi ‘sa vedere’ che esistono qualità e proprietà comuni tra animali, piante e uomini. La legge naturale è la medesima. Il simile attrae il simile quindi, mediante il simile, si può comprendere il simile. Attraverso gli animali possiamo conoscere noi stessi e svelare le sottili leggi che governano le nostre azioni indagando la nostra anima. Questo non è soltanto un metodo di ricerca scientifica, ma un modo per rivelare e interpretare realtà occulte, per indovinare – o in-divinare – ossia – sondando l’etimologia del termine – per trovare qualcosa che è divino, che appartiene al Dio (da divinus).
«L’animo umano, dice Cicerone, è così involto negl’oscurissimi veli, e così nascosto sotto la tenebrosa caligine della simulazione, che quanto stimi gl’occhi, la fronte, e tutto il sembiante ti manifestino la verità, ed il parlar più di tutti, allor mentiscono più che mai. Si scorge talvolta sotto sembianza di uomo benigno, come afferma Seneca, come animo di fera, anzi più fero delle più fere fere. Per questo desiderò sommamente Socrate, acciò che giamai non s’avesse ad ingannar uomo, che fusse una fenestra nel petto: che così non potrebbe star nascosto un cuor doppio, ma a ciascun fusse lecito scoprir la volontà, i pensieri, le verità e le bugie.» [Giovanni Battista Della Porta, La Fisonomia dell’huomo et la celeste, Proemio]
Purtroppo secoli dopo, la popolarità della fisiognomica crebbe, ma caricandosi di elementi negativi, con le bizzarre tesi di antropologi e criminologi come Cesare Lombroso che volle applicare alcune ipotesi fisiognomiche alla criminologia, in particolar modo alla prevenzione dei reati, oppure con gli studi dedicati alla frenologia, diffusasi negli Stati Uniti nel corso del XIX secolo.
La deriva che prese la fisiognomica, dopo gli studi di Della Porta, testimonia che la sua opera rimase – e certamente rimane – ancora incompresa a chi non ha una predisposizione, nell’àmbito della conoscenza scientifica, ad andare a fondo nella ricerca e a non fermarsi alla semplice e immediata manifestazione fisiologica o apparente – che spesso può rivelarsi ingannevole.
medaglione_giovan_battista_Vico Equense (NA) 1535 - Napoli 1615
Di Della Porta, Lorenzo Crasso scrisse, nella sua opera Elogii degli huomini letterati: «applicò l’animo ad investigar gli arcani della Natura, o trascrivendo gli altrui ritrovati. Hebbe la Città di Napoli per Patria. […] Non appieno contento della Filosofia, della Matematica e della Magia naturale, che a beneficio universale stampò più Libri, intese così bene di Fisonomia, imbevuta da lui ne’ fonti de’ Greci Scrittori, e Latini, che da quel che n’ha scritto, si conosce il suo gran valore. […] In predire gli humani eventi fu stimato l’Indovino de’ suoi tempi. Perloche sospetto alla Curia Romana perspicace osservatrice del suo Nome, e delle sue azioni, fu costretto non senza mortificazion d’animo a dar severissimo conto del suo sapere. […] Giunto a gli anni settanta di sua Vita, chiuse gli occhi alla luce nell’anno del Signore 1615, lasciando di sé quella fama, che non morirà mai presso i Posteri Virtuosi.»
Ovviamente, guardando all’opera di Della Porta e ai suoi insegnamenti, per considerarsi ‘Posteri Virtuosi’ occorre non essere legati a una visione limitata dei fenomeni naturali, bisogna ‘guardare oltre’ – o, meglio, ‘guardare dentro’ –, saper togliere i veli per arrivare a comprendere la legge interna, nascosta, e, per questo, sacra della Natura.

Bibliografia

  • Giovanni Battista Della Porta, De humana physiognomonia, Vico Equense, Giuseppe Cacchi, 1586.
  • Giovanni Battista Della Porta, Phytognomonica, Napoli, Orazio Salviani, 1588.
  • Giovanni Battista Della Porta, Magiae naturalis libri viginti, Francoforte, Iohann Aubry & Claude de Marne, 1591.
  • Lorenzo Crasso, Elogii degli huomini letterati, Venezia, Combi & La Noù, 1666.
  • Luisa Muraro, Giambattista Della Porta mago e scienziato, Feltrinelli, Milano, 1978.

 

Immagini

  • in testata particolare di Le streghe vanno al Sabba (Luis Ricardo Falero, 1878).
  • in evidenza De distillatione (ed. del 1608, p. 31).

 




Ferrante Imperato

Naturalista e speziale napoletano
Incerto è il luogo e la data sia della nascita (Napoli, 1550 ca.) sia della morte (Napoli, 1631) ma le sue ricerche, le sue attività e i suoi scritti sono ben noti e non solo ai napoletani. Ignoto il periodo della sua infanzia, probabilmente vissuta a Napoli come il resto della sua vita, ma è conosciuto già speziale e naturalista, uomo affermato nella società per le sue ricerche e il suo lavoro. Sposato e con tre figli, Ferrante ha vissuto in un appartamento sito in via Monteoliveto a Palazzo Gravina (attualmente sede di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) al cui interno costruì il suo museo naturale o con nome tedesco Wunderkammer (camera delle meraviglie) tra i più famosi dell’epoca in Europa.

Frontespizio Dell'Historia Naturale

Frontespizio Dell’Historia Naturale

Da vero uomo di scienza amante del sapere per esercitare al meglio la sua attività di speziale allestì collezioni di animali, piante e minerali raccolti di persona, comprando o scambiando reperti con altri studiosi e ricercatori del mondo, anche con particolari anomalie. I reperti erano esposti nella sua casa che era aperta a tutti, dagli studiosi delle scienze naturali ai visitatori più curiosi ed era un luogo talmente conosciuto da essere riportato nelle guide storico-artistiche di quel periodo.
Imperato fece rappresentare (autore ignoto) con una xilografia una piccola parte dell’allestimento nell’apertura della sua opera Dell’historia naturale composta da ventotto libri e stampata a Napoli nel 1599 e tradotta anche in latino come opera postuma a Colonia nel 1695.
All’interno della sua opera espose i suoi studi: da quelli riguardanti l’idea “moderna” dei fossili all’importanza delle acque per il modellamento dei rilievi, dalla descrizione di alcune specie animali allora non conosciute a quella precisa della salinità del mare attraverso la serie stratigrafica nelle cave di pozzolana.
Il suo trattato non passò inosservato al Santo Uffizio sia per gli argomenti trattati sia per lo stile alchemico-iniziatico; ne è chiaro esempio il libro XXI.

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Libro vigesimoprimo.
Nel qual generalmente si tratta della medicina filosofica, secondo l’opra maggiore e minore. Ferrante Imperato, 1599

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Parte integrante delle sue collezioni è un ricco erbario, in parte disperso negli anni e in parte acquistato negli anni successivi alla sua morte da Nicola Cirillo (1671-1734), nonno di Domenico Cirillo, stimato botanico e medico napoletano. Attualmente una piccola parte è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
Nella sua professione di speziale godette di ottima fama e stima da parte di molti, tanto che «fu eletto dai suoi colleghi partenopei membro del Consiglio di ispezione e sorveglianza dell’arte degli speziali, il Consiglio degli otto, che, oltre a controllare la correttezza dell’attività dei membri della corporazione, aveva anche il compito di sovrintendere alla preparazione dei composti farmaceutici più delicati» [Preti].

 

A M. Ferrante Imperato spetiale et semplicista eccellentissimo, et uno de gli Otto, in Napoli. Bartolomeo Maranta, 1572

Partecipò alla stesura del libro Della theriaca et del mithridato libri due di Bartolomeo Maranta nel quale l’autore si servì delle conoscenze e dell’esperienza di Imperato per descrivere con estrema precisione le procedure per preparare i due medicamenti citati nel titolo dell’opera. Dimostrò con fervore le sue conoscenze in farmacopea ai colleghi medici padovani che misero in discussione gli ingredienti e le procedure descritte nel libro di Maranta, sottolineando loro che medici e speziali dovessero essere considerati colleghi alla pari.
Nella sua vita ricevette molte cariche tra le quali, nel 1587, quella di governatore popolare della Gran Casa della Santissima Annunziata di Napoli all’interno della quale vi era una spezieria.
Fu vicino ai Lincei, di cui però forse non fece mai parte ma intrattenne relazioni con i più grandi studiosi dell’epoca: Giovan Battista Della Porta, Fabio Colonna, Tommaso Campanella, Bartolomeo Maranta, Col’Antonio Stigliola, Giuseppe Donzelli e persino con Galileo.
Prese parte nel 1611 alla napoletana Accademia degli Oziosi.

Bibliografia

  • Pietro Battaglini, Storia della Zoologia Napoletana, Napoli, Federiciana Editrice Universitaria, 2008.
  • Ferrante Imperato, Dell’historia naturale, Napoli, Costantino Vitale, 1599.
  • Bartolomeo Maranta, Della theriaca et del mithridato libri due, Venezia, Marcantonio Olmo, 1572.
  • Cesare Preti, http://www.treccani.it/enciclopedia/ferrante-imperato_(Dizionario-Biografico)/, Dizionario Biografico degli Italiani (2004).

 

Immagini

  • in testata: Museo di Ferrante Imperato, edizione Venezia, 1672 (Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images – wellcomeimages.org).
  • in evidenza: Ferrante Imperato, ritratto giovanile.