Il natale di ogni grande personaggio è sempre stato accompagnato da auspici e aneddoti che ne predicevano le gesta future. Così le circostanze intorno alla nascita di Federico II Hohenstaufen contraddistinsero subito l’eccezionalità della sua figura. Egli venne alla luce il 26 dicembre del 1194 a Jesi, dopo nove anni di matrimonio infecondo tra Enrico VI di Svevia, figlio di Federico Barbarossa, e Costanza d’Altavilla, erede dei sovrani normanni dell’Italia meridionale; subito fu celebrato quale riunificatore dei due regni, di Germania e di Sicilia, e portatore di una nuova età dell’oro.
Per silvas, per humum, per mare tutus eo.
Non aquilam volucres, modo non armenta leonem,
Non metuent rapidos vellera nostra lupos.
Nox ut clara dies gemino sub sole diescit,
Terra suos geminos sicut Olimpus habet.
Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti
Il suo nome completo, Federico Ruggero, ereditato rispettivamente dal nonno paterno e materno, sottolineava la legittima pretesa di entrambi i troni. Nel 1196 fu eletto per volontà del padre re dei Romani, un titolo che lo indicava come futuro reggente del Sacro Romano Impero, sebbene per consacrare la carica ci fosse bisogno dell’incoronazione da parte del papa; nel 1198, otto mesi dopo la morte di Enrico VI, Federico fu eletto re di Sicilia. Rimasto orfano anche della madre l’anno successivo, crebbe sotto la severa tutela di Innocenzo III.
Il pontefice sperava che nessuno avrebbe mai riunito la corona imperiale con quella del regno di Sicilia, poiché questo avrebbe significato stringere lo Stato della Chiesa in una morsa, accerchiandolo. Nominò dunque imperatore Ottone IV di Brunswick, combinando invece per lo svevo un proficuo matrimonio con Costanza d’Aragona nel 1209. Il papa però non fece i conti con le mire espansionistiche del nuovo imperatore, che rivendicò i diritti imperiali sui territori italiani, richiamandosi all’antiquum ius imperii, e perfino la corona di Sicilia.
Federico, diventato padre del suo primogenito Enzo, si trovò a scegliere se affrontare la battaglia per impadronirsi della corona paterna e assumere l’eredità degli Svevi o occuparsi del regno di Sicilia, nel quale non aveva ancora imposto per intero la sua egemonia. Decise di partire per la Germania, dove ottenne l’appoggio di molti principi tedeschi.
Finalmente il 9 dicembre 1212 fu incoronato imperatore nel duomo di Magonza. L’impegno di Federico a mantenere la separazione tra regno e impero fu sigillato il 12 luglio 1213 con la Bolla d’Oro o promessa di Eger, in cui venne sancito anche il voto del sovrano a intraprendere una crociata in Terrasanta.
Lo scontro decisivo che segnò la sconfitta di Ottone ebbe luogo a Bouvines nel 1214, grazie anche all’aiuto del re di Francia. Nel 1215 Federico ricevette una seconda incoronazione ad Aquisgrana, ultima resistenza al suo dominio, dove peraltro erano conservate le spoglie di Carlo Magno.
Tornato in Sicilia, che aveva lasciato otto anni prima, l’imperatore poté dedicarsi a consolidare le istituzioni nel regno. Durante il suo governo si impegnò a realizzare in Italia meridionale una forte monarchia statale, limitando ogni forma di governo autonomo, grazie anche all’attuazione di un centralismo amministrativo. Le leggi che sancivano le linee guida del suo Stato centralizzato sono note come Costituzioni di Melfi, pubblicate nel 1231 nell’omonima città.
Per circondarsi di funzionari e collaboratori efficienti il 5 giugno 1224 istituì con editto formale a Napoli la prima Universitas studiorum statale e laica della storia d’Occidente. Vi studiarono personaggi quali Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca.
Il rafforzamento del potere di Federico II nell’Italia meridionale allarmò il nuovo papa Gregorio IX, che appena eletto nel 1227 scomunicò l’imperatore, rimproverandogli di non aver mantenuto il giuramento che lo obbligava a partire per la crociata. In realtà l’impresa fu ostacolata nell’agosto dello stesso anno da un’epidemia che colpì l’esercito e che costrinse lo stesso Federico a trovare ristoro nei bagni di Pozzuoli.
Una volta guarito partì per la Terrasanta, dove nel 1229 riuscì a concludere un accordo decennale con il sultano d’Egitto al-Kāmil, che restituiva ai cristiani Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, mentre ai musulmani riservava le aree considerate sacre per la loro religione.
I rapporti burrascosi tra Federico e Gregorio IX furono sanati nel 1230 con la pace di San Germano, che da una parte invalidava la scomunica ma dall’altra prevedeva larghe concessioni al papa. L’accordo non servì a placare la lotta tra potere temporale e potere spirituale, così all’elezione del pontefice Innocenzo IV seguì una spaccatura tra i comuni dell’Italia centro-settentrionale di orientamento ghibellino e quelli che invece si definivano guelfi. Federico cercò di ricondurre tutta la penisola sotto la sua autorità, ma subì importanti sconfitte; si spense per una patologia intestinale il 13 dicembre del 1250.
Passato alla storia come uno dei personaggi che illuminò il Medioevo, a Federico fu associato l’appellativo di stupor mundi, espressione derivante dal linguaggio militare romano che consacrava le doti di un generale. La personalità eclettica e l’attitudine a governare furono anche il frutto della sua formazione. L’istruzione di Federico avvenne in Sicilia, terra a cui lui sentì di appartenere molto più della Germania. I precettori del sovrano furono molti, e questo fattore contribuì a forgiare non solo un’educazione adatta al suo rango, ma anche una mentalità aperta e un grande amore per l’arte, la letteratura e la scienza.
Uomo di grande cultura anche dal punto di vista linguistico, padroneggiava tedesco e francese, e conosceva l’arabo e l’ebraico. Circa un decennio dopo l’incoronazione imperiale decise di integrare l’azione di stabilizzazione istituzionale del proprio dominio ad un ambizioso progetto culturale: la creazione di una letteratura in volgare che competesse con le forme più avanzate della produzione letteraria ma che al tempo stesso fosse dotata di proprie peculiarità. Nacque così la Scuola poetica siciliana, un’originale rielaborazione del modello provenzale trobatorico, attraverso la selezione di contenuti e scelte stilistiche, in cui però la lingua usata è il volgare, un siciliano depurato e intenzionalmente raffinato. Tra gli illustri protagonisti di questa corrente letteraria troviamo gli appartenenti alla magna curia dell’imperatore, tra cui Pier delle Vigne e Iacopo da Lentini. Fu proprio quest’ultimo presumibilmente a inventare una nuova forma metrica, il sonetto, composto da quattordici endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Per quanto i temi trattati, la Scuola siciliana si differenzia dal modello provenzale in quanto argomento esclusivo è l’amore; non un’esperienza reale per il poeta ma stilizzata, rivolta ad una dama che viene quasi divinizzata. La politica era una tematica sapientemente evitata all’interno di una corte dove il potere del sovrano non poteva essere messo in discussione.
Sempre nell’ottica di un controllo capillare del territorio va inserita l’instaurazione di una fitta rete di insediamenti che costituiscono il sistema castellare federiciano. Castelli e palazzi erano costruiti non solo sulla base di un reale programma di difesa militare ma anche a scopo propagandistico, come segno visibile del potere dello svevo. Emblema dell’impegno del sovrano in ambito architettonico è sicuramente Castel del Monte, realizzato nel 1240. In realtà è in dubbio se l’edificio sia stato fondato ex novo o se si sia trattato di restaurazione di un precedente stanziamento normanno, fatto sta che il rigore dell’impostazione planimetrica ne ha reso un elemento unico dello scenario dell’Italia meridionale, tanto da essere inserito nel Patrimonio UNESCO nel 1996. Apparentemente isolato, il castello sorgeva nei pressi di alcuni nuclei insediativi dell’epoca. L’ubicazione in cima ad una collina, costantemente inondato dal sole che con i giochi di luce e ombra ne esaltava le forme maestose, non poteva esimersi dal dare una connotazione quasi sacrale alla struttura, accrescendo di pari passo la grandezza del suo fondatore. Federico fu uno dei personaggi che meglio valorizzò il concetto di “arte al servizio del potere”.
Aperto ad una ampia gamma di interessi, dalla matematica all’astronomia, dalle scienze naturali alla filosofia, sicuramente tra le sue passioni primeggiava la caccia, in particolare l’arte della falconeria, su cui scrisse il celebre trattato De arte venandi cum avibus, opera purtroppo rimasta incompiuta.
Il manoscritto originale è andato perduto, in compenso sono presenti diverse redazioni, le più note delle quali sono denominate dalla critica redazione “breve”, che comprende solo due libri, e redazione “lunga”. Le copie sono ascrivibili a due dei figli di Federico II, rispettivamente Manfredi, avuto da Bianca Lancia, e il primogenito Enzo.
Il trattato si compone di sei libri. Il libro I è un manuale di ornitologia in cui gli uccelli vengono suddivisi in acquatici, terrestri e intermedi. Ogni specie è accompagnata da una minuziosa descrizione delle sue caratteristiche biologiche e morfologiche. Ci si sofferma sulla nidificazione e sulla cova, ma contemporaneamente anche sulla presentazione degli organi interni ed esterni, con particolare attenzione alle ali. Numerosi sono i paragrafi dedicati al piumaggio e alle particolarità del volo; è presente anche una dissertazione sul fenomeno migratorio. Il libro II è dedicato più propriamente alla falconeria, quindi tratta delle modalità di cattura dei falchi e della loro nutrizione; si descrivono le pratiche di addomesticamento, come la cigliatura, ovvero la cucitura delle palpebre, e l’impiego degli attrezzi per l’addestramento. Mentre i primi due libri trattano argomenti generici gli altri quattro si addentrano sempre più nella materia, approfondendo specifiche pratiche. In particolare il libro III delinea le complesse fasi dell’addestramento del falco al logoro (attrezzo generalmente costituito da un’ala di uccello o un mazzetto di penne), sia a piedi, sia a cavallo, quindi alla traina, e infine si occupa dell’addestramento dei cani da caccia. I libri IV, V e VI sono riservati alla caccia alla gru, all’airone e agli anatidi adoperando rispettivamente il girfalco Falco rusticolus, il falco sacro Falco cherrug e il falco pellegrino Falco peregrinus.
Intentio vera nostra est manifestare ea quae sunt sicut sunt
Friderici Romanorum Imperatoris Secundis, De arte venandi cum avibus
Non si può fare a meno di notare che l’opera racchiude una duplice natura: da una parte è un meticoloso compendio di caccia, dall’altra è un prezioso trattato ornitologico, molto diverso dai lavori precedenti poiché basato sull’osservazione e su un approccio sperimentale. Federico non si esime dal correggere le lacune dei modelli che aveva conosciuto attraverso la costruzione di veri e propri esperimenti, come quelli riguardanti l’abilità degli avvoltoi di riconoscere le carcasse di animali con il solo olfatto.
L’esperienza diretta è anche alla base delle splendide raffigurazioni; tra le più belle quelle che illustrano il volo.
Per lo svevo inoltre l’arte della falconeria ha molto in comune con l’attività del sovrano; ecco dunque che l’opera diventa di ampio respiro, poiché nel ritratto che ci fornisce del perfetto falconiere si rispecchiano i principi della sua linea politica.
La complessità ma soprattutto la modernità del De arte venandi ne ha fatto sicuramente uno degli scritti più significativi del Medioevo, non subito apprezzato dai contemporanei ma poi universalmente riconosciuto, tanto che ancora oggi rappresenta un baluardo a cui si rivolgono studiosi e appassionati.
Bibliografia
- Ernst Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlino, Klett-Cotta, 1987.
- Fulvio Delle Donne, Il potere e la sua legittimazione: letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia, Arce (FR), Nuovi segnali, 2005.
- Giuseppe Staffa, I grandi imperatori. Storia e segreti, Newton Compton, 2015.
- Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti a cura di G.B. Siracusa, Roma, Istituto Storico Italiano, 1906.